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La dolcezza e la forzaAllergia, natura e la radiosità materna del mese di maggioGio 26 Apr 2012 | di Susanna Tamaro | Susanna Tamaro
Quando ero bambina, aspettavo il mese di maggio con un’ansia particolare. Le giornate diventavano più lunghe, più luminose e già si riusciva a intravedere, in lontananza, la fine della scuola. Ai tempi della mia infanzia, a dire il vero, le lezioni non finivano intorno al dieci giugno come ora, bensì alla fine del mese. Già a maggio, però, se il tempo era buono, si cominciavano a mettere i sandali - quelli blu, con i due buchi davanti come le orecchie di Topolino, recentemente tornati in auge -, e i bar esponevano i cartelloni di latta con le proposte di gelati per l’imminente stagione estiva. Davanti a quei cartelli colorati potevamo stare ore a studiare i nuovi gusti e modelli, sognando il momento in cui ci avrebbero permesso di mangiarli; momento che, di solito, dipendeva direttamente dalle nostre azioni. Poter avere un gelato, infatti, negli anni ’60, non era, come oggi, un diritto acquisito, ma qualcosa da riuscire a conquistare con i nostri comportamenti. Se eravamo stati bravi, potevamo sperare di afferrare un cono o un ricoperto direttamente dal grande frigo del bar, se invece ci eravamo comportati male, l’agognato gelato si smaterializzava tristemente davanti ai nostri occhi! E, oltre al presagio della fine della scuola, maggio voleva dire, per me che vivevo in una città di mare, anche l’imminente ripresa della stagione balneare. Con l’incupirsi dell’adolescenza e della prima giovinezza - e il concomitante incupirsi del clima degli anni ’70 - maggio divenne per me un mese ostile. Non riuscivo più a capire cosa fosse la vita, di conseguenza, la grande esplosione della natura che avveniva in quel periodo non poteva che irritarmi, non procurandomi altro che rabbia o indifferenza. Perché mai cantavano gli uccellini? mi chiedevo. Non c’era proprio niente per cui cantare. Che senso avevano poi tutti quei fiori, quella luce, quei colori, quell’inutile e straripante offerta di bellezza, quando invece la vita ci regalava solo desolazione? Capita sempre così, nei momenti di umore nero, di depressione: anche le cose più meravigliose le percepiamo come squallido grigiore. Ho continuato a detestare il mese di maggio per tutti i lunghi anni che ho vissuto a Roma, non più per irritazione, ma perché non mi era concesso di goderne: avevo cominciato a percepire la sua bellezza e il fatto stesso di esserne esclusa - vivevo in una zona completamente priva di verde - mi faceva soffrire. Non possedevo una macchina e così dovevo accontentarmi di raggiungere a piedi il parco più vicino a casa, la domenica; mi portavo qualcosa da mangiare, dei libri da leggere e lì passavo l’intera giornata, cercando di incamerare, nel mio corpo e nella mia mente, le luci, i colori e i profumi che mi avrebbero poi aiutata a sopravvivere al grigiore della settimana che mi aspettava. Non amavo la vita in città, come non amavo il mio lavoro, quasi sempre chiuso tra quattro pareti. Ogni mattina, il solo raggiungerlo con i mezzi era un’impresa davvero eroica che prosciugava gran parte delle mie forze. Soltanto quando, dopo i trent’anni, mi ammalai di una grave forma di asma e mi trasferii a vivere in una zona di alta collina, in Umbria, il mio rapporto con il mese di maggio iniziò a cambiare. Fu il mio corpo a salvarmi, a darmi i segnali giusti: vivevo soffocata da una vita che non sentivo mia e lui me lo fece capire. Decidere di lasciare tutto fu una scelta di pura sopravvivenza. E poi, che cosa lasciavo? Una camera, la cui unica finestra si affacciava su un muro grigio e un lavoro precario e saltuario che, fino ad allora, non era stato altro che fonte di continue umiliazioni. In quella semplice casa in cima alla collina, circondata da siepi, prati e vigneti, ripresi rapidamente contatto con la parte più profonda di me. Pochi giorni dopo il mio arrivo, una mattina comparve in fondo al prato un cucciolo di cane che divenne, in breve, il compagno - anzi la compagna, perché era una lei - fedele delle mie passeggiate. Cominciai anche a coltivare un piccolo orto, dietro la cucina, e a dedicare molte ore allo scrivere, attività che percepivo essere la mia vera vocazione. Essendomi trasferita lassù in settembre, ebbi così tutto il tempo per prepararmi all’arrivo della primavera. Tuttavia, quando vidi le prime gemme gonfiarsi già a marzo e la natura esplodere ai primi di maggio, l’emozione mi tolse quasi il fiato e, questa volta, non per l’allergia. Un giorno, poi, durante una delle mie abituali passeggiate con il cane, incrociai una bambina che non dimostrava più di otto anni: camminava tenendo per mano un orsacchiotto; la vidi chinarsi davanti a un’edicola sacra, raccogliere un mazzolino di fiori di campo, posarli davanti l’immagine della Vergine e poi allontanarsi leggera, canticchiando. Una finestrella si aprì allora nella mia memoria più arcaica! Ma sì, maggio era il mese mariano, il mese cioè che la devozione popolare dedica alla Madre di Gesù e, dunque, trasversalmente, a tutte le madri: e non poteva essere diversamente dato che è proprio in maggio che la vita si manifesta in tutta la sua straordinaria varietà e bellezza. Ricordo che, a quei tempi, quando molte mie amiche cominciarono ad aspettare figli, io intuivo la loro condizione prima ancora che me la dicessero. A un tratto, infatti, il loro volto diventava radioso, anche sui visi più tormentati i tratti si distendevano, la loro pelle e i loro sguardi emanavano una luminosità sconosciuta fino a poco prima. Ecco, improvvisamente, capii la mia emozione: la natura, in maggio, esprimeva una radiosità materna. E questa radiosità era pervasa, più di ogni altra cosa, di dolcezza. Dolcezza! Chi osa più pronunciare questa parola? Ridicolizzata, derisa, considerata ormai sorpassata, è stata chiusa in un baule, assieme ad altro ciarpame sentimentale, e lì abbondonata. La donna contemporanea - quella esaltata dai media e dalla banalità del pensiero politicamente corretto - è una persona che vive nell’oblio totale di questo sentimento. La donna esaltata e ammirata da tutti è unicamente la donna guerriera. E come potrebbe essere diversamente? Una società sempre più nemica della vita non può altro che essere, sotto l’apparente volto della totale libertà, sempre più nemica delle donne. Siamo costrette ad essere perfette. Perfette sul lavoro, perfette in casa, perfette con il marito o con il compagno, altrimenti ci sarà sempre una più perfetta di noi che prenderà il nostro posto; perfette con i figli, con i suoceri e alla fine, dulcis in fundo, perfette nel nostro fisico. Niente pancia, niente cellulite, niente borse sotto gli occhi. La nostra accettazione, da parte della società, passa anche attraverso il nostro corpo, che deve essere costantemente teso verso il modello di perfezione imposta dai media. La donna guerriera vive così inseguita da una muta di fantasmi: il fantasma del fallimento, dell’abbandono, della depressione, del non essere all’altezza. Resistiamo, certo; andiamo avanti, sicuro, ma sempre più smarrite, sempre più nella nebbia. Recisa la fonte della dolcezza materna, dobbiamo attingere ad altre sorgenti, che comunque si stanno esaurendo. Il condizionamento che è stato attuato in tutti questi anni sul nostro immaginario ci ha portato a considerare questo sentimento profondo, che ci appartiene da sempre, come qualcosa di mellifluo, debole, non degno della nostra intelligenza. Essere dolce, insomma, è diventato sinonimo di arrendevolezza. Ma siamo sicure che sia davvero così? E se invece lo spirito di maternità fosse proprio all’origine della nostra straordinaria forza e proprio per questo facesse paura? Osservate una gatta con i suoi gattini: è di una dolcezza estrema nel leccarli e nutrirli, ma provate un po’ a strappargliene anche uno solo… Forse è arrivato il momento di riflettere su questo. |
Susanna Tamaro
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