Pietro Mennea: il bianco più veloce del mondo
«Eliminato nei 100 metri, trasformai la cosa in positivo. E arrivò l’Oro nei 200»
Ven 15 Giu 2012 | di Angela Iantosca | A&S SPORT
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Per 17 anni è stato l’uomo più veloce del mondo sui 200 metri. Con quei 19"72 il 12 settembre del 1979 alle Olimpiadi di Città del Messico il ragazzo venuto da Barletta, figlio di un sarto e di una casalinga, incollò ai televisori di tutto il mondo milioni di persone. A 40 anni dai Giochi Olimpici di Monaco, Pietro Mennea ha pubblicato “La corsa non finisce mai”, una autobiografia agonistica ed umana.
Come è nata l’idea del libro?
«Quest’anno è il 40ennale dell’Olimpiade di Monaco, dove ho disputato la prima Olimpiade: mi sembrava giusto scriverlo. Io allora ero appena 20enne. Mi ero presentato a quei giochi come detentore del record d’Europa dei 100 e 200 metri. Arrivai terzo nei 200 metri. Fu un grande risultato, ma non appagò la mia determinazione».
Come sono cambiate le emozioni negli anni?
«L’emozione cambia, perché si matura: acquisisci una visione globale dello sport e del mondo. Diventi consapevole di quello che fai. Quando partecipai, 4 anni dopo, alle Olimpiadi di Montreal, il mio prestigio sportivo era più consolidato. A Montreal mi presentai come favorito, ma persi, arrivando 4°. Proprio da quella sconfitta sono ripartito per costruire i 4 anni più belli della mia vita sportiva: quelli dal 1976 al 1980».
Come si preparava alle gare?
«Mi allenavo moltissimo: 5 o 6 ore al giorno. Prima di ogni gara, mi isolavo, per concentrarmi».
Che differenza tra lo sport dei suoi anni e lo sport di oggi?
«Io come velocista ho disputato 5 Olimpiadi, nell’arco di 20 anni. Ed è difficile raggiungere questa longevità. Io correvo moltissimo. Sicuramente lo sport che abbiamo fatto noi non lo cambierei con lo sport di oggi. Non si può correre per 20 anni ed ottenere sempre risultati, se non hai obiettivi reali davanti a te. Non ti appaga il correre solo per questioni economiche: ci sono valori non indifferenti dietro la forza che ti spinge ad andare avanti per così tanto tempo».
Ci sono stati dei momenti in cui ha pensato che non ce l’avrebbe fatta?
«A Mosca, nel 1980: fui eliminato nella semifinale dei 100 metri, quando mancavano 48 ore alla finale dei 200: allora ho dovuto trasformare un momento negativo in qualcosa di positivo. E dopo due giorni è arrivato l’Oro. Sono state le 48 ore di cui vado più orgoglioso nella mia vita sportiva».
Come si è reinventato dopo aver abbandonato il mondo dello sport?
«Non è che uno si reinventa. Uno si prepara alla vita: lo fa a 30, 40, 50, 60 anni. Quando ho smesso di correre, ho scelto di fare la professione dell’avvocato. Ma durante le gare avevo già messo le basi per quello che sarei stato dopo. Mano a mano crescevo, cercavo di mettere un piccolo tassello: è ciò che mi ha insegnato lo sport».
Cos’altro le ha insegnato lo sport?
«Che attraverso la dedizione, i sacrifici, si possono raccogliere cose importanti. Pur non essendo un predestinato, visto che ero piccolo e mingherlino, sono riuscito dove altri hanno fallito, nonostante fossero più dotati di me da un punto di vista fisico».
Quali gli incontri più importanti della sua vita?
«Tanti! Nel libro parlo degli incontri con Tom Smith, Alì, Sandro Pertini, un politico che oggi, soprattutto oggi, manca all’Italia: sono stato l’ultima persona che Pertini ha voluto vedere prima di lasciare il Quirinale. Sono incontri che lasciano una traccia. Perché sono uomini che hanno fatto la storia dello sport e non solo. Smith si è battuto per i diritti umani e civili della sua gente. Alì si è opposto alla guerra in Vietnam. E io sono stato cooptato nella storia di queste persone, quando ho battuto il record di Smith o quando sono stato presentato ad Alì come l’uomo più veloce del mondo…».
E lui cosa disse?
«Domandò come fosse possibile che un bianco fosse il più veloce del mondo. E io gli risposi: “ma dentro sono più nero di te!”. Si aspettava un atleta di colore, grande fisico, e invece ha visto me, piccolo e mingherlino».
A luglio le Olimpiadi: cosa ne pensa?
«Credo che saranno grandi Olimpiadi dal punto di vista sportivo. Anche se la Gran Bretagna è in crisi come lo è gran parte dell’Unione Europea. Le Olimpiadi sono eventi che hanno una finalità importante, che è quella di portare avanti i valori olimpici, ma sono anche eventi onerosi che i Paesi non riescono più a sostenere. Recentemente, infatti, gli organizzatori hanno affermato che, se avessero saputo che la crisi era così, non si sarebbero candidati ad ospitarle. Dobbiamo fare attenzione: è sempre un grande spettacolo, ma il gigantismo non paga più, lascerà segni negativi nei Paesi che vanno ad organizzare i giochi: basta guardare alla Grecia».
LA FONDAZIONE MENNEA
“Ho cominciato a dedicarmi agli altri all’inizio degli anni Settanta. Mi occupai dei terremotati del Friuli. Ho seguito il campo della solidarietà e della beneficenza come persona fisica. Avevo abbracciato diverse cause. Poi, con mia moglie, abbiamo deciso di dar vita alla Fondazione, che si occupa soprattutto di bambini, disabili, bambini con labbro leporino, di malattie rare. Si occupa anche di sport, lotta al doping, ricerca scientifica. Non vuole salvare il mondo… ma porta avanti tante cause importanti. Qualche anno fa abbiamo ricevuto il Premio Don Pino Puglisi, mentre a maggio in Albania, il presidente ci ha conferito la medaglia della gratitudine! Segni tangibili che ci portano a continuare con grandi sacrifici. Tutti i diritti d’autore dei miei libri vanno in beneficenza e lo facciamo perché è uno spirito insito nella nostra cultura: se possiamo aiutare, facciamolo! Oggi, per esempio, siamo la prima Fondazione nel mondo che dona libri: a biblioteche comunali, provinciali, scuole, università, consorzi. Non è poco. Soprattutto in un Paese strano come il nostro”.
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