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Alessandro Siani: La mia prima regiaRecord di incassi per il suo primo film, ma lui sogna un one man show in tvVen 29 Mar 2013 | di Boris Sollazzo | Interviste Esclusive
Ha appena presentato “Il principe abusivo”, che ha fatto incassi record (unica commedia italiana recente ad andare ben oltre le previsioni al box office) ed è la sua prima regia. La storia è semplice e tenera: una principessa e un povero si incontrano, si innamorano e passano un film intero a giocare alla commedia degli equivoci. Trama poco originale, come il finale, ma la verve di Siani basta per piacere a tutti. Quando ha capito che far ridere sarebbe stato il suo lavoro? «Quando grazie all'insegnante di religione, a scuola, mi sbloccai. Mi spronò a scrivere il mio primo spettacolo. E cominciai a scrivere battute, scoprendo di essere divertente. E quel bambino introverso e silenzioso lasciò il posto all'Alessandro attuale. Esposito cominciò a diventare Siani. Che un po' timido e riservato, però, è rimasto. Non sono mai stato un leader, né il ragazzo dall'umorismo trascinante. Io osservavo molto, assorbivo e poi scrivevo su un diario tutti i miei pensieri. Ancora adesso quelle pagine mi sono di ispirazione, ancora oggi saccheggio un po' delle battute che scrivevo allora». Siani, come si sente? «Direi bene. Devo dire che ho scoperto sulla mia pelle quanto sia difficile e faticoso stare dietro la macchina da presa, lo confesso». Fino ad ora aveva fatto solo l'attore? L'avevano viziata troppo? «No, non mi ero limitato solo a quello, che comunque è un lavoro non facile. Sulla sceneggiatura di “Benvenuti al Sud”, ad esempio, ho chiesto io di metterci mano, prima ancora che si parlasse di un cachet. Mi diedero carta bianca su tutto e da lì è nata la mia collaborazione-ombra con Cattleya. E anche dopo, quando temevamo il sequel, abbiamo usato lo stesso sistema. E proprio mentre lo pensavamo è arrivata l'idea de “Il principe abusivo”. Piacque subito sia a me – d'altronde era mia, era ovvio che mi piacesse! – che a Riccardo Tozzi, uno dei soci di Cattleya, che l'ha data nelle mani dello sceneggiatore Fabio Bonifacci. Ha mantenuto la promessa che mi fece allora, il produttore, e ci ha aiutato il fatto che avessimo la stessa squadra per il mio esordio alla regia». Con qualche asso in più nel cast. «Sono stato molto fortunato. Avere accanto un attore come Christian De Sica, infatti, vuol dire poter chiedere un consiglio a un grande uomo di cinema. E lui, con me, è stato generoso, siamo diventati molto amici e, se devo ringraziare questo film, lo devo fare per il rapporto che si è instaurato tra di noi, prima ancora che per il successo. Se potessi esprimere un piccolo sogno, è quello di fare uno spettacolo a teatro con Christian, magari anche facendo il remake italiano di “Quasi amici” che lui mi aveva proposto per il grande schermo. Grazie a lui e al suo talento che sa unire tenerezza e comicità, dopo il contrasto nord/sud ho voluto e potuto affrontare quello tra ricchezza e povertà, già trattato da grandi classici come “My Fair Lady” o “Il conte Max”. E anche, scendendo un po', da “Il piccolo Lord” o da “Una poltrona per due”». Non ha paura di alimentare con questo film alcuni stereotipi sulla sua Napoli? «No. Cerco sempre di evitare gli stereotipi su Napoli, ho tolto i panni dalle finestre, ho messo i caschi a chi va col motorino. E, se pensate al protagonista, tutti sanno che lo scroccone non è solo napoletano. E poi io voglio far vedere una Napoli bella: quello stereotipo, se mai lo è, mi piace. Mi dispiace, ma nei miei film non si vedranno rifiuti o criminalità, così come non troveranno posto pizza e mandolino. In ogni caso proprio in questo periodo abbiamo iniziato a pensare, con Bonifacci, a una storia più matura. Sia nel guardare Napoli, sia nel racconto. Ho voluto qui, invece, una Napoli da favola, che attirasse una principessa tanto da farle abbandonare il suo reame. Questa è la mia città e la amo». Tanto da non volerne vedere i difetti? «No, li conosco bene. La amo tanto da voler sperare e cercare di fare in modo che dalle sue ombre nasca la luce. Poi Napoli è raccontata da tanti autori: guarda com'è diversa dalla mia quella di “Reality” o “Gomorra” di Garrone. Mi fa piacere però che questo luogo sia tornato al centro dell'attenzione non per i suoi drammi, ma per la sua bellezza, per la sua complessità. E che più di ogni altra città potesse rappresentare la forbice tra ricchezza e povertà che volevo portare in scena, forse l'elemento più autobiografico del film. Io ho vissuto entrambe». Cos'è per lei la ricchezza? «Non è guadagnare molto denaro, ma avere la libertà di fare ciò che desideri. Poter fare un film mio, ad esempio, non aveva prezzo». Ora che il cinema le va così bene, non si parlerà più di lei in tv? «E perché mai? Mi piacerebbe molto fare un one man show, se ne era parlato con la Rai e spero che presto si torni a discuterne. Mi piacerebbe portare sul piccolo schermo quello che faccio da 20 anni a teatro. Molto più difficile che si avverino le voci che mi volevano a “Le Iene”, a “Zelig” o a “Striscia la Notizia”. Sono tre trasmissioni che amo perché sanno raccontare il Paese con leggerezza, ma con gli impegni sul palcoscenico è difficile conciliare i tempi della televisione».
NACQUI ESPOSITO
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