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Richard Gere: Recitare è un giocoil fascino, il potere, il figlio, il tibet e... Alberto SordiVen 29 Mar 2013 | di Boris Sollazzo | Interviste Esclusive
Bel tipo Richard Gere. Nel mio lavoro l'avrò incrociato almeno cinque volte e man mano lui invecchiava, diventando un anziano signore bellissimo e giovanile, mentre io crollavo sotto il peso dell'età diventando un giovane vecchio. Ha la serenità negli occhi di chi sa cos'è importante nella vita – la sua fede, l'amore della moglie, il figlio adolescente, lo studio della mente – e di chi prende il cinema e la recitazione per quello che sono, un bel gioco. Negli ultimi mesi lo abbiamo incontrato a San Sebastian prima e poi a Roma. Presentava, in entrambi i casi, il film “La frode”, ancora in sala. Un thriller-noir con al centro il sistema capitalistico moderno e i suoi (dis)valori. Film solido e interessante che appassiona e fa riflettere. Allora, Gere, come ha indossato gli scomodi panni di un onesto truffatore? «(Ride, sornione - ndr) Mi è bastato pensare una cosa: “Se fossi stato in Italia, come avrei interpretato questo personaggio ricco, con l'amante, tanti guai finanziari e abiti eleganti?”. Poi ho capito: era sufficiente pensare a un italiano in particolare. Scherzi a parte, non è stato difficile: la sceneggiatura era meravigliosa e aveva personaggi ben fatti, nonostante Nicholas Jarecki, il regista, fosse al suo primo lavoro. Forse perché i suoi fratelli, Andrew ed Edward, lavorano nel cinema da anni e quindi lui ne sapeva già parecchio. Su di me ha disegnato un personaggio moderno, in mezzo ad altri simili a lui, tutti con una chiara visione del mondo. Il mio tycoon (termine che deriva dal giapponese e significa finanziere - ndr) è il maschio alfa, ed è un carattere universale nel mondo di oggi». Non la imbarazza, da uomo di fede, incarnare questi valori così immorali? «Mi chiedono sempre perché da buddista e allievo del Dalai Lama accetto di fare personaggi così cattivi. Molti non capiscono che la recitazione è un gioco e che anche per questo può avere un risvolto di contenuto importante. Tutti commettiamo errori e scendiamo a compromessi e ci capita di mentire: quindi tutti siamo come lui. Solo che quest'uomo si ritrova dentro un meccanismo molto più potente e pericoloso di quelli a cui siamo abituati noi». Ritrova Susan Sarandon come moglie. Al cinema, intendo. «Questa è la seconda volta che fa mia moglie al cinema. E vuoi sapere una cosa? Ci conosciamo da 40 anni e nella realtà discutiamo sempre su tutto, proprio come una coppia sposata da parecchio. Ma siamo solo grandi amici. Abbiamo discusso parecchio anche sul finale del film, ancora oggi ne parliamo. Quello che conta è il punto di vista dello spettatore, noi dovevamo mostrare il grigio emotivo del protagonista e la responsabilità morale individuale e collettiva. Perché il messaggio del film è uno specchio: guardiamo noi stessi, prima di puntare il dito contro gli altri. Non a caso il momento in cui si arriva più vicini all'essenza del film è curiosamente la scena in cui è scattata l'improvvisazione. Parlo del dialogo con mia figlia, quando le dico “tu non sei mia socia, lavori per me. Tutti lavorano per me”». Delirio di onnipotenza. Da Hollywood a Washington è il vero pericolo dell'Occidente? «Il problema sono le tentazioni che provocano la concentrazione di soldi e potere, il fatto che ti facciano sentire al centro dell'universo. Quella è la bugia, la frode più grande, la dittatura del denaro rispetto alla persona. E la cosa interessante è che questo tipo di uomini non li trovi solo nella finanza, ma anche nel cinema, nel governo e ovunque puoi arrivare abbastanza in alto da entrare in un club in cui sei una sorta di semidio intoccabile, perché protetto dai tuoi simili. Ecco, spero che Obama rompa queste logiche perverse. Nei primi quattro anni ha avuto le mani legate, ma ora confido in lui». Il suo personaggio mantiene il potere, ma perde tutto il resto. «Sfrutta la legge, una serie di tecnicismi il cui nemico di fondo è la verità e il cui alleato più fedele è un avvocato ben pagato: e infatti il club esclusivo alla fine riesce a proteggerlo. Il personaggio perde tantissimo, moglie e figlia, ma ho imparato dalla vita che certe situazioni non sono mai definitive. È sempre possibile porre un rimedio nei rapporti importanti, penso a Clinton che fece cose meravigliose e altre assurde: durante l'impeachment la famiglia gli aveva voltato le spalle, ora sono il ritratto dell'unione. Tutto si può riparare, se lo vuoi». A chi si è ispirato per questo film? «Non mi dire Madoff, incarnazione del cattivo finanziario. Io piuttosto ho preferito pensare a figure come quella di Ted Kennedy che scappó a nuoto da un incidente automobilistico, ripresentandosi solo due giorni dopo. Situazione non molto dissimile quando un incidente provoca la morte della mia amante, Laetitia Casta. E queste due scene, una vera e una inventata, sono la dimostrazione che anche uomini buoni, in certe situazioni, possono prendere decisioni sbagliate». Chi e cosa la colpisce del cinema italiano? «Se devo essere sincero, Alberto Sordi, uno capace di avere più registri. E di saperli dosare anche in opere diverse, portando comicità nel drammatico e viceversa. Credo che sia fortemente rappresentativo del vostro Paese». E ora cosa la aspetta? «Ho diversi progetti. Forse anche una regia ma non ho nessuna pressione nel volerla fare subito. Il mio compito principale è cercare di capire, monitorare la natura della mente. E sopratttutto mio figlio: è appena diventato adolescente, manca poco prima che cominci a staccarsi da me e quindi voglio passare del tempo di qualità con lui. E molto. E poi tanto del mio impegno, come tutti sanno, è rivolto alla questione terribile del Tibet, un'ingiustizia quotidiana che mi addolora profondamente».
RICHARD, 63 ANNI
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