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Tutti in cucina!

Dalla Tv alla scuola, è boom di aspiranti cuochi. Passione e grandi opportunità lavorative, in Italia e all’estero

Lun 27 Mag 2013 | di Maurizio Targa | Attualità

Dalla Parodi a Carlo Cracco, la cucina fa audience e tendenza, in Tv come in libreria. Ecco quindi tantissime persone che, sulla scia di programmi come “Hell's Kitchen”, “Cotto e Mangiato”, “Master Chef”, scoprono improvvisamente una grandissima passione per il cappello da cuoco. Gente di ogni età e condizione sociale: manager, casalinghe e teenagers, tutti alle prese con manuali e videolezioni che spiegano i segreti per servire succulenti manicaretti. Sorprendentemente reattiva anche la risposta della struttura scolastica italiana: in dieci anni, tra il 2002 e il 2012, i soli istituti alberghieri statali sono passati da 223 a 348, e gli iscritti da 117.000 a 158.000. 

La classica sfuriata delle madri arrabbiate “se non studi ti mando all'alberghiero”, insomma, rischia di essere una minaccia obsoleta. Anzi, oggi sono proprio i genitori a incoraggiare la passione, regalando ai pargoli padelle e mestoli. Ma meglio il "classico" istituto alberghiero, le accademie private delle chef-star o i nuovi master super esclusivi? Se lo chiedono i ragazzi che ogni anno vanno a riempire le aule dove si impara ad aprire un riccio di mare, a preparare un'insalata di verdure e si sorride al cliente che cerca di scegliere da una chilometrica carta dei vini. Senza contare le accademie esclusive come Alma, che a Colorno, in provincia di Parma, sforna quelli che oggi vengono considerati i migliori talenti, sotto l'occhio vigile di Gualtiero Marchesi, superstar della cucina, che è anche il testimonial scelto dal MIUR, il Ministero dell'Istruzione, nella sua brochure dedicata al rilancio delle scuole tecniche e professionali. «Un buon cuoco - spiega Marchesi - non è solo una persona che possiede i rudimenti del mestiere, ma anche e soprattutto una persona informata, colta. Trasformare in nutrimento i prodotti della terra e del mare non implica solo il massimo rispetto per la salute di se stessi e degli altri, ma riguarda il piacere, l'identità e la scoperta». Non tutti gli allievi sognano di fare carriera in televisione, ma tanti vorrebbero aprire un ristorante o solo appagare una passione. 

Cameriere, perché no?
Le ricadute sull’occupazione sono notevoli: nel 2012 sono stati oltre diecimila i cuochi neoassunti in tutta la penisola, oltre agli stagionali reclutati per brevi periodi durante l'alta stagione. Il 21,9% delle aziende del settore prevede di fare almeno un'assunzione nel 2013, secondo le stime di Unioncamere. Passione, moda e realismo si incrociano, insieme alla convinzione diffusa che l'industria italiana più solida sia, nel medio termine, proprio quella del cibo. Anche i sondaggi parlano chiaro: uno recentissimo di Coldiretti rivela che un ragazzo su due, rispetto al sicuro, ma forse un po' noioso, posto in banca, preferirebbe dilettarsi con pentole e ingredienti. Tutti vogliono fare lo chef o il sommelier, ma nessuno vuole lavorare in sala. «È un errore - spiegano dalla Federazione Italiana Operatori di Sala - perché sotto molti aspetti il servizio è altrettanto importante e qualificato. Servono infatti la conoscenza di due lingue, un aspetto curato e un sorriso spontaneo. Il resto si impara». I dati danno ragione alla Federazione: quasi 8.000 posti di lavoro il saldo attivo 2012, anche qui senza contare gli stagionali. «Dopo il diploma, tuttavia – ha spiegato Bob Noto, uno dei più talentuosi fotografi di cucina italiani –, ci sono in giro troppi ragazzi che rischiano di sentirsi già 'imparati'. Invece, quello è il momento in cui ricominciare a pelar patate».

Non solo moda
Ma c’è il rischio che si tratti di una moda fugace, o dietro c’è qualcosa di più serio? «Personaggi come Cracco e Marchesi hanno fatto molto – racconta Salvatore Perna, preside dell'alberghiero "Beccari" di Torino –: prima parlavano i padroni dei locali e la cucina era nell’immaginario, un luogo oscuro e forse un po’ sporco. Oggi gli chef sono come le archi-star di qualche anno fa. Il nostro lavoro è tirar fuori la passione, ma il coinvolgimento “mediatico” dei genitori ci aiuta, perché i ragazzi non decidono da soli e quando facciamo le giornate a porte aperte vengono con le famiglie». Ma cosa si insegna? «Per arrivare a ricreare i piatti preferiti di Enrico IV, è necessario un adeguato studio della storia e di quel periodo».

Qualche trucchetto, oltre lo studio?
Sorridere, sapersi muovere in fretta senza far danni, avere mani forti e delicate come un pianista, senza le quali è impossibile aprire correttamente i frutti di mare. A Torino, a Piazza dei Mestieri, quasi 300 ragazzi studiano tra i due e i tre anni, alternando le lezioni agli stage, per diventare cuochi, camerieri, baristi. «Qualcuno – spiegano dall’Istituto – viene qui subito dopo le medie, ma la maggior parte ha abbandonato un percorso di studi tradizionale, compreso l'alberghiero. Troppa teoria, spiegano i ragazzi, mentre in molti casi hanno mani eccellenti e un talento vero». 

Quali corsi mettere in calendario?
«La programmazione deve essere ricca, con oltre 30 titoli, anche in base alle tradizioni locali – fanno sapere dalla Federazione –. Tra i più frequentati ci sono i corsi base, quelli di pasticceria o per imparare a far pane e pasta, i monotematici su pesce, carne, cottura al forno e cucine tipiche del territorio, oltre ai corsi di cucina giapponese, spagnola, indiana. Indispensabile che le ricette siano poi replicabili a casa, con le attrezzature di una qualsiasi cucina. Le proposte devono essere rivolte a una clientela più ampia possibile per età e per disponibilità di spesa, prevedendo corsi di durata differente: da 2-3 ore a 4-10 lezioni, fino a veri e propri master. L’ultima moda oggi sono i corsi incentivi per top manager, pagati dall’azienda stessa, dove aspiranti cuochi in doppiopetto e cravatta si cimentano a fare un arrosto o un flan di verdure, per sviluppare creatività e competenze utili anche sul lavoro, per la gestione del personale e l’organizzazione aziendale». 

Quasi quasi mi apro una scuola!
Ma qual è la formazione necessaria per insegnare in cucina? Alla neonata AICF, l’Associazione Italiana Cuochi Formatori, organizzano corsi di cucina di base per chi poi deve insegnare a terzi; il prezzo si aggira sui 1.000 euro. Qualche migliaio di euro anche per i corsi superiori di alta cucina e di pasticceria, mentre quelli di specializzazione vanno dai 100 ai 400-500 euro l’uno. Per aprire una scuola non servono spazi enormi: possono bastare anche 60-70 metri da suddividere tra cucina, biblioteca e uno spazio adibito a reception e ufficio. L’ideale sono locali fronte strada, con parcheggio agevole, o all’interno di un centro commerciale, in un agglomerato urbano con bacino d’utenza di almeno 20/30mila persone. L’investimento iniziale può aggirarsi attorno ai 30mila euro per la predisposizione dei locali e l’allestimento della cucina che, pur semplice, deve essere ben curata e dotata di tutte le attrezzature indispensabili: fuochi, lavabi, forni, elettrodomestici, banco di lavoro e utensili vari da mettere a disposizione anche dei partecipanti. All’inizio è importante farsi conoscere con la pubblicità, in attesa che si metta in moto il passaparola. Molto utile disporre di un sito internet, mettere inserzioni sui giornali della zona e dispensare consigli di cucina a riviste, programmi radio o tv locali. E, quando la scuola ha acquisito una certa notorietà, si può andare alla ricerca di sponsor tra le aziende alimentari dei prodotti che si usano in cucina. 

E il guadagno?
Difficile fare calcoli, perché dipende da quanti corsi si organizzano all’anno, dai partecipanti e dalla durata. In genere i costi pro/partecipante vanno dai 50 ai 70-100 euro per i corsi monotematici che durano una o due lezioni, fino ai 600-800 euro per i corsi di 8-10 serate, tre ore l’una. I master costano anche qualche migliaio di euro, variabili in funzione dell’argomento e del tempo dedicato. Le scuole più conosciute reclutano 1.500-2.000 iscritti l’anno, con periodi di punta in primavera e inverno. Una scuola di cucina medio-piccola, a regime, riesce a fatturare almeno 10mila-15mila euro al mese. I costi riguardano l’affitto del locale e il personale docente, compresi sommelier e barman esterni con cui di solito si collabora; oltre a utenze, promozione, pulizie, commercialista e burocrazia. Gli oneri per materie prime, grembiuli e dispense non gravano invece oltre il 10-15% dei ricavi. In fin dei conti, l’utile può raggiungere il 40% sul fatturato!

Nemo cuoco in patria?
Tutto ok, ma la crisi? Divento chef, ma se poi il ristorante chiude e mi sbatte fuori? “I bravi cuochi vanno in Paradiso”, dice un proverbio anonimo. Nell'attesa, vanno all'estero. Molti giovani aspiranti chef italiani fanno gavetta nelle cucine dei ristoranti europei e d'oltreoceano, in America e in Asia, e spesso in Paradiso ci vanno davvero: il Wall Street Journal ha inserito nella lista di Bruce Palling, quella che elenca il gotha dei fornelli mondiali, due italiani tra i dieci migliori giovani chef europei. Nell'attesa della loro consacrazione nello star system culinario, i più grandi fan delle nuove leve restano i clienti abituali, quelli che, dopo aver provato un'esperienza gastronomica indimenticabile, passano in cucina a fare i complimenti e diffondono il passaparola tra gli amici e sul web. E se sono tanti i cuochi che lasciano l'Italia, paradossalmente molti sono gli stranieri che vengono ad imparare qui, sia per tornare in patria col brand formidabile dell’attestato tricolore, sia per rimanere qui e diventare pizzaioli e gelatai. Il 40% dei corsi di cucina è seguito da sudamericani, mentre egiziani e cinesi aprono soprattutto pizzerie e gelaterie. E la cucina si conferma ciambella di salvataggio occupazionale: anche se, nonostante la disoccupazione giovanile ai massimi storici (38,4%), i ragazzi snobbano i lavori artigianali, tra i quali, in prima fila, c'è il cuoco, mestiere che il mercato cerca con insistenza, soprattutto all’estero. In Germania, per esempio, proprio i cuochi sono i più desiderati dalle aziende, dopo ingegneri e autisti. Cibo e tradizioni nostrane portano lavoro proprio dove maggiormente vengono apprezzate: negli USA quando si dice 'ristorante italiano' ci si è già messi in tasca metà della serata!  


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