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Mamma e agente speciale

L’adrenalina di Criminal Minds resta fuori dalla porta di casa di A. J. Cook, l’agente speciale Jennifer Jereau, che nella vita reale ama pensare a sé solo come ad una mamma premurosa

Ven 29 Ago 2014 | di Alessandra De Tommasi | TV/Cinema
Foto di 7

Non esiste lieto fine, non in “Criminal Minds”: la serie tv (in onda su Rai Due ogni venerdì alle 21 con la nona stagione) colleziona storie di delitti seriali inquietanti e porta alla luce il vero mostro che può nascondersi in un cugino, un vicino di casa e persino in un esponente dell’ordine. Per A.J. Cook, interprete dell’agente speciale e profiler dell’FBI Jennifer Jereau, esiste invece un’altra prospettiva da cui guardare questi crimini efferati. E ce la spiega al Monte-Carlo TV Festival, che l’ha vista nel parterre di star ospiti del Principe Alberto II di Monaco.

Come si fa a rimanere ottimisti dopo aver girato una sequenza sui dettagli di un omicidio?
«Se gli agenti di “Criminal Minds” perdessero la speranza nell’umanità allora la serie non avrebbe senso. È vero, i toni delle vicende raccontate diventano spesso piuttosto dark, ma i protagonisti sono gli eroi che li stanano, ci proteggono e ci guardano le spalle. Dal mio punto di vista, danno fiducia al pubblico».

Qual è il segreto di tanta longevità?
«Siamo un gruppo molto affiatato, anche se nel corso degli anni alcuni volti si sono avvicendati nel cast, tra di noi rimane un feeling fortissimo».

Del team fanno parte alcune donne davvero energiche. Quale messaggio trasmettono al pubblico femminile?
«Insegnano alle donne a proteggersi e difendersi, le aiutano a sentirsi sicure: molte fan ci ringraziano per questo».

Quando la produzione non ti ha rinnovato il contratto, il pubblico si è ribellato e ha ottenuto il tuo ritorno. Cosa ne pensi?
«Mi ha molto commosso che il pubblico ami la squadra nella sua interezza. Sono ritornata senza risentimenti, mi è stata data una seconda chance e ne sono orgogliosissima. E poi la mia storia ha avuto un totale cambio di rotta: non solo battiti di ciglia e sguardi innocenti da cerbiatto, ma un temperamento combattivo e forte. Amo imparare dagli errori e migliorare, nel frattempo anche J.J. evolve e diventa meno naive».

In che modo?
«Finora il suo passato era avvolto nel mistero, ma ora conosciamo la verità, sappiamo cosa l’ha resa più forte e la vediamo nei panni della “action hero”, con un ruolo piuttosto fisico e per questo anche intrigante e gratificante. Mi ha scioccato ed emozionato leggere per la prima volta la sceneggiatura che va oltre la solita formula della caccia all’uomo e fa luce sui risvolti personali della vita degli agenti. Spero che nella prossima stagione, la decima, si scopra ancora di più sul passato dei personaggi visto che non ci saranno stacchi e ripartiremo dalla stessa scena del finale precedente».

A te cosa è successo?
«Quando diventi mamma vuoi rendere il mondo un posto migliore per i tuoi figli e sfoderi una grinta che non pensavi di avere, sperimenti gli aspetti più duri della vita. Prima del telefilm io non potevo neppure immaginare che esistessero nel mondo mostri simili, ecco perché oggi sono più cauta e prudente. Resto una persona solare, ma non mi fido più ciecamente di tutti come prima, anche se quando torno a casa lascio il set fuori dalla porta: è un modo per proteggermi».

Cosa ti ha insegnato il telefilm?
«Alcune storie mi rendono paranoica, ma al tempo stesso mi educa a capire il mondo. Questo lavoro mi ha reso vulnerabile ed esposta, perché comunque il pubblico può dire su di me quello che vuole e le critiche fanno male. Allora nel quotidiano dimentico di essere un’attrice e me ne ricordo quando vedo che per strada qualcuno mi fissa. Per il resto del tempo mi concedo il lusso di dimenticarlo: d’altronde è un lavoro, non la mia vita».

La tua più grande paura?
«Che qualcosa di orribile possa accadere a mio figlio: il solo pensiero mi paralizza».

L’episodio 200 contiene scene molto forti che ti riguardano. Come le hai vissute?
«La tortura è stata piuttosto brutale, ma l’intento di farla sembrare il più reale possibile è stato raggiunto, perché avevo davvero la testa nell’acqua. Anche se non stavo affogando, percepivo ugualmente quella sensazione di soffocamento: per attutirla inizialmente si pensava di usare una busta di plastica sul viso, ma è stato peggio, così abbiamo usato l’asciugamano. Ho insistito io a non volere controfigure».

Perché?
«Fa parte del lavoro sperimentare, andare oltre i limiti, e ora sono orgogliosa di eliminare questa voce dalla lista».                                       



Io attrice? chi l’avrebbe mai detto
Da bambina non si immaginava affatto davanti ad una macchina da presa, ma sulle punte. La danza, il primo amore della canadese Andrea  Joy Cook (classe ’78) l’ha accompagnata dai quattro anni fino all’adolescenza, anche in forma agonistica e declinata in vari generi (classica, jazz e tip tap). Fino a quando, a 17 anni, ha visto “Dirty Dancing – Balli proibiti” e ha deciso di diventare attrice. Intanto ha fatto qualche lavoretto part-time, McDonald’s incluso, e ha frequentato l’università allo Utah Valley State College, dove ha conosciuto Nathan Andersen, oggi suo marito. Nel 2008 è nato il loro bambino, Mekhai Allan, e tutti insieme vivono lontani da Hollywood. Il vero debutto al cinema è arrivato con “Il giardino delle vergini suicide” di Sofia Coppola: da allora ha alternato cinema e tv. Prima di entrare nel cast di “Criminal Minds” nel 2005 ha recitato in altri telefilm, da “Horizon” a “Tru Calling” passando per “Dead Like Me” dopo il debutto in “Piccoli brividi” (era il 1997). 


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