La nostalgia nel piatto
L'industria del food&beverage rispolvera marchi e prodotti vintage, mentre nella prima scuola italiana di cucina si insegna a dialogare con la terra
Gio 26 Nov 2015 | di Paola Maruzzi | Attualità
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Antonio Banderas fa il pane in un Mulino Bianco sperso in una dimensione pre-industriale, sugli scaffali dei supermercati tornono in auge prodotti di un'altra epoca come la cedrata o il chinotto, i grandi marchi si rifanno il look ammiccando al passato (è successo, tra gli altri, alle confezioni di Barilla e Coca Cola).
Cosa sta succendo?
«Siamo in piena operazione-nostalgia – ci spiega Luca Pellegrini, ordinario di marketing all'Università dello Iulm – a livello commerciale si stanno letteralmente resuscitando i morti. Seppure il food&beverage sia molto sensibile a questo revival, e l'Expo ce ne ha dato una conferma, si tratta di una tendenza generalizzata: pensiamo, per esempio, a Palmieri nella cura della persona. Maina, Fabbri, la cetrada Tassoni, sono tante le insegne che fino a poco tempo fa avevano un che di polveroso e che ora brillano di nuova vita".
Alla base di questo cambio di rotta c'è "un consumatore in overload da innovazione, stressato dai repentini cambiamenti. Non si fa in tempo ad abituarsi a un oggetto che subito viene sostituito. Ciò che invece appartiene al passato trasmette sicurezza e stabilità. L'industria pubblicitaria è stata abilissima nel toccare certe corde emotive. Sensibili a questo fascino vintage sono anche le giovani generazioni secondo le quali tradizione e artigianalità hanno una valenza positiva, segno evidente di un cambio culturale».
Se oggi persino il cibo industriale e mass market si innesta sui valori vecchio tipo come il fatto a mano e il locale, negli anni '80 era tutto un amplificare le novità: «L'avanguardia erano le merendine o le sottilette, geniali perché confezionate singolarmente».
Dietro il marketing della nostalgia non c'è solo apparenza e scelte di packaging. In ballo c'è qualcosa di più profondo: a tavola gli italiani hanno aggiunto un piatto nuovo, la qualità. Lo spiega meglio Rossano Boscolo, chef di fama internazionale e rettore della prima scuola di cucina in Italia, il Campus Etoile Academy: «Stiamo tornando al piacere vero del mangiare, la gente ha più conoscenze e consapevolezza del buono. Nel Dopoguerra, preambolo di quello che sarebbe accaduto con il consumo di massa, il cibo incarna la nuova euforia sociale, si fa pretesto per scacciare via il ricordo della fame. Si andava al ristortante per il gusto di uscire. Erano gli anni delle grandi abbuffate, di un mangiare fino a se stesso».
Ma, come un boomerang, il sistema messo in piedi dall'industria del food, ritorna al punto di partenza. «Guardiamo la foto dei nostri nonni, le persone in sovrappeso si contano con il lanternino. Non possiamo dire la stessa cosa della nostra generazione. Questo ci dimostra che il ritorno al cibo qualitativo è un passaggio obbligato per la gastonomia del futuro».
Attenzione però perché sano e genuino non per forza fanno rima con il tornare indietro. «Sfatiamo un luogo comune – prosegue Boscolo – non è vero che prima si mangiava meglio, a livello agroalimentare c'erano meno normative e controlli e più pesticidi. Sotto molti aspetti le materie prime di oggi sono più genuine di trent'anni fa».
Ora che il food ha riscoperto il coraggio di trainare e puntare dritto alla dimensione del benessere, dello star bene, la tradizione culinaria italiana si lega indissolubilmente a un inedito 'saper fare'. «Nella cucina del futuro – conclude Boscolo - troverà posto uno chef colto, preparatissimo sul piano teorico, ma vicino alla terra ai i suoi prodotti e, soprattutto, sarà capace di confrontarsi con una concezione salutistica del cibo».
Quando le giovani aziende puntano su gusti retrò
Avviare un nuovo business attingendo alla tradizione: l'ha fatto Chinottissimo, brand che si rifà esplicitamente agli anni Sessanta e all'azienda del fondatore Pietro Neri. «Essere sul mercato con un prodotto retrò significa ripercorrere i passi dei nostri padri e nonni, attraverso gusti e sapori di una volta ancora impressi nelle menti e nei palati dei consumatori – ci racconta Domenico Meddi, direttore commerciale dell'azienda laziale –. I giovani apprezzano il nostro prodotto e amano ascoltare le storie legate ad esso. Per Chinottissimo, a pieno titolo nel circuito delle Botteghe Storiche di Roma, fare innovazione significa "tornare a fare le cose come una volta, stare attenti alla salute del consumatore. Non bere tanto, ma bere bene, magari ascoltando un vecchio vinile"».
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