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Ben Stiller: Vi presento la mia famigliaDimenticate per un attimo i ruoli comici di Ben Stiller: al Festival di Cannes ha messo in scena un dramma familiare a dir poco vibrante, “The Meyerowitz Stories”, con Dustin Hoffman e Adam SandlerMer 30 Ago 2017 | di Alessandra De Tommasi | Interviste Esclusive
Ben Stiller come non l’abbiamo visto mai: l’attore che ci han conquistato per i ruoli brillanti e comici ha deciso di dare una svolta alla vita e alla carriera. E dalla crisi di mezza età di “Brad’s Status” si passa ai delicati equilibri familiari di “The Meyerowitz Stories”, presentato al Festival di Cannes da Netflix, e “Brad’s Status”, in anteprima al 13° Zurich Film Festival. La scelta di copioni impegnati non è una novità recente ma potrebbe essere dettata da vicende private che l’hanno coinvolto e cambiato profondamente, come ha dichiarato mesi fa, dopo la remissione dal cancro. Intrattenere il pubblico è un lavoro rispettabile e gratificante, ma evidentemente Stiller ha deciso di alzare l’asticella e metterci dentro anche un pezzo di se stesso, con una sorprendente schiettezza.
Avrebbe potuto scegliere un altro blockbuster, invece racconta una storia intima e familiare con “The Meyowitz Stories”. Nessuna paura?
«Quelle ci sono sempre, soprattutto quando ti confronti con un simile dramma, ho pensato: “Non voglio deludere nessuno”. Volevo far parte del progetto a tutti i costi e mi sono preparato moltissimo, e poi volevo interpretare il fratello di Adam Sandler da tanto tempo ma finora non è mai successo, gli voglio davvero bene e questo legame sul set è stato uno dei momenti più meravigliosi della mia vita. La storia di questa famiglia fatta di incomprensioni, frasi non dette e segreti l’ho sentita molto vicina e credo che ognuno di noi vi si possa identificare». È un bene o un male assomigliare tanto ad un personaggio? «A volte è una maledizione. Io mi sento troppo vicino a Matthew anche se non saprei dire a quale aspetto. La famiglia proietta su di lui desideri e speranze e gli sembra di non essere all’altezza e di non capire fino in fondo cosa vogliano da lui. Ecco, neppure io avevo colto il senso della sceneggiatura quando l’ho letta per la prima volta, ero entrato in crisi, non mi sentivo all’altezza né pronto e non avevo mai provato nulla di simile in vita mia. Ripeto, sarà stato perché mi ci riconoscevo troppo…». Avere per padre sullo schermo Dustin Hoffman non è da tutti, anche se il suo patriarca ha collezionato quattro matrimoni e tre figli da altrettante mogli, oltre ad essere un artista eclettico e lunatico… «Sono cresciuto con i suoi film, è uno dei grandi attori che mi ha ispirato nella mia carriera e poter lavorare con lui è stato un regalo. Ogni volta che lo incontro e posso studiarlo da vicino lo apprezzo sempre di più e non solo per il talento straordinario ma perché è divertente, generoso e tira sempre fuori aneddoti incredibili su qualche film cult». Lei come reagisce? «Mi faccio piccolo piccolo davanti ad una mole di lavoro come il suo. Fin dall’inizio della sua carriera ha fatto scelte oculate e i risultati si vedono». Crede, insomma, che vita e carriera procedano in parallelo? «Sempre: i film che fai rispecchiano sempre il momento della vita che stai vivendo e questo mi ha permesso sempre di dare il meglio di me». Dietro la macchina da presa si è cimentato con film piuttosto cinici, tranne per “I sogni segreti di Walter Mitty”. È cambiato il suo stesso approccio alla condizione umana? «Forse, mi sono lasciato andare alle emozioni in quell’occasione, il che comporta sempre un rischio e fa paura. Ma ho capito che nella vita devi sfidare quello che ti terrorizza, metterti in gioco, non adattarti mai sugli allori, costruirti il tuo destino attraverso percorsi insospettabili».
Dentro i suoi lavori si celano molte passioni che l’hanno conquistata anche da ragazzo, ci fa un esempio? «Lo skate: io praticavo a New York da quando avevo dieci anni e l’ho infilato in quel film, cimentandomi nelle varie piroette. Quella passione di un tempo l’ho trasmessa anche a mia figlia perché adoro lo sport anche se non sono bravo come vorrei, ma ho ricordi bellissimi legati alla mia infanzia e mi sembrava giusto passare il testimone alla nuova generazione». Cosa ne pensa dei social media? «Il mondo virtuale spesso ci distrae dalle interazioni vere e quotidiane, che sono più complicate ma anche più autentiche. È importante stabilire legami veri con chi ci sta intorno senza essere proiettati costantemente altrove. La mia generazione è arrivata prima della tecnologia che usiamo oggi, dal cellulare ai videogame e ai computer e io ho sperimentato moltissime prime volte. Ho vissuto la transizione dall’analogico al digitale nel modo di ricevere le informazioni e ho visto che sono diventate meno tangibili e meno concrete».
Si considera vecchio stile? «Non mi piace leggere sul tablet, preferisco il libro fisico o una copia del giornale che mi fa sentire realmente dentro la storia, ma ammetto di essere anch’io dipendente dagli smartphone e dalla tv e mi rendo conto che l’arco dell’attenzione si riduce, mentre a volte celebrare la memoria fa bene». E un sognatore? «La fantasia è fondamentale, ci aiuta a sentirci vivi soprattutto se si fa un lavoro meccanico e un po’ arido. Ci dà il coraggio di seguire i nostri sogni». Com’è cambiato dai tempi in cui ha diretto il primo film, ‘Giovani, carini e disoccupati’? «All’epoca pensavo solo a vivere il momento, non facevo bilanci né mi preoccupavo di alcunché».
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