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Cattivo io? Non scherziamoL’incontro con Kevin Spacey è di quelli indimenticabili. Il camaleontico Premio Oscar, oggi spietato Presidente in tv per “House of Cards”, sa come lasciare a bocca aperta e continua a farlo…Mer 27 Set 2017 | di Giulia Imperiale | Interviste Esclusive
Scordatevi i sorrisi rassicuranti (e finti), le risposte di cortesia e le pacche sulle spalle. Con Kevin Spacey le cose non vanno mai come ti aspetti… e non perché voglia terrorizzare l’interlocutore con la fama del suo alter ego di “House of Cards”, il Presidente degli Stati Uniti Frank Underwood, il politico senz’anima che piega una nazione ai suoi interessi. Vi ricorda qualcuno? Ogni riferimento a persone e fatti realmente esistiti – sia messo agli atti – è puramente casuale.
Nella gigante sala-museo di un hotel della Capitale, che assomiglia più alla Casa Bianca di quanto probabilmente lui stesso non voglia ammettere, l’attore incrocia le braccia al petto, ma non come farebbe nel telefilm o in “Baby driver: il genio della truffa”, l’ultima straordinaria pellicola che lo vede protagonista. No, sembra più un auto-abbraccio di protezione, mentre si siede sull’angolo della poltrona, quasi pronto a scattare alla minima domanda scomoda. Non lo fa, anche se a fine conversazione batte le mani e ringrazia in italiano, come farebbe un conduttore tv o il presentatore di uno spettacolo teatrale che non vede l’ora di congedare l’ospite o il pubblico. La controparte – sia di nuovo messo agli atti – vorrebbe invece che il dialogo continuasse per ore e ore, perché di rado si trascorre una pausa pranzo tanto sconvolgente come quella in sua compagnia.
Dica la verità, ha un debole per i personaggi ambigui… «Forse mi piace solo che il pubblico li incontri a metà strada e non sappia mai se schierarsi dalla loro parte o meno. O forse ho un debole per i ruoli dark, chi non si divertirebbe al posto mio nei loro panni?».
In “Baby driver” interpreta un criminale, ma anche il suo presidente di “House of cards” lo è. In tempi pericolosi come i nostri cosa la spaventa di più? «Apprezzo la diplomazia e l’impegno che mette nel provare a trascinarmi in un dibattito politico, ma non ce la farà».
Come approccia, allora, un personaggio? «Non con l’idea che lo stia inventando, ma con la certezza che lo sto semplicemente interpretando, arricchendolo del maggior numero possibile di sfumature. Quello che ne viene fuori non è il mio quadro, ma quello del regista e dello sceneggiatore. Quindi sai chi temo di più? (Fa una pausa ad effetto e poi aggiunge con solennità - ndr) I giornalisti».
Se lo dice con quel tono è lei a terrorizzarmi… «(Ride - ndr) No, sto scherzando ovviamente, continua pure».
Meglio interpretare un politico corrotto, un basista di rapine o un personaggio teatrale? «Non puoi confrontare arance e mele, ma se dovessi proprio scegliere allora punterei sul teatro tutta la vita».
Anche nella realtà ci attirano gli antieroi? «Non censuro nessun tipo di ruolo, se non quelli scritti male. Ad essere onesti però a volte la gente ha la falsa idea che un attore se ne stia seduto a selezionare parti, invece posso solo recitare le parti che mi offrono e che in quel momento sono libero di poter accettare, quindi sono limitate, ma l’unica cosa che mi spaventa è la stupidità».
Cambiando argomento: le piace lavorare con le giovani generazioni? Cosa insegna loro e cosa impara? «Non ho la presunzione di insegnare niente a nessuno, se non durante le mie lezioni, che per inciso tengo volentieri. Ma sai cos’ho imparato io da ragazzo? Ad osservare i grandi talenti all’opera, come Jack Lemmon: ha costruito la carriera per decenni, al top della sua professione e mi ha detto che il leader di uno spettacolo non è solo il protagonista, ma il conduttore, quello che guida gli altri in una compagnia e sento la responsabilità del compito, quella di dare l’esempio e rendere l’atmosfera rilassata e cooperativa».
La sua carriera è costellata di ruoli drammatici di grande spessore, le manca la commedia? «In effetti non mi offrono tante commedie come vorrei... e pensare che invece a teatro ne faccio tante, inclusi concerti e imitazioni. Credo dipenda dal fatto di essere un po’ imprigionato nella categorizzazioni per etichette che ti vengono appioppate, che ti piaccia o no».
Cosa le è restato dell’esperienza al teatro di Londra Old Vic? «Il mio atteggiamento verso la compagnia è merito del teatro, invece il film incoraggia l’isolamento, perché non cominci e finisci la giornata dividendo la storia con un pubblico e non reciti con gli stessi attori, quindi questa sensazione nessuna gloria di Hollywood può cambiarla».
Lei spende gran parte del tempo a Londra. Dopo gli attentati recenti, pensa che l’Europa sia sotto attacco? «Mi spezza il cuore vedere tante perdite, ma non credo che l’Europa sia sotto attacco, qui si tratta di isolati esempi perpetrati da tristi perdenti, che pensano che questo sia il modo più semplice per fare del male alla gente e uccidere innocenti. La prova di tutto questo sta nel modo in cui reagiamo, per dimostrare che alla fine andrà tutto bene».
Qual è il suo rapporto con l’Italia? «Se potessi girerei qui tutti i film, ma sono sulla buona strada, sono già a quota due nel giro di un anno e mezzo. Nell’ultimo interpreto Gore Vidal che ad intermittenza ha vissuto nella Penisola per trent’anni, quindi spero di onorare quest’uomo straordinario. Per il resto sono un pessimo turista: cosa può non piacere dell’Italia?».
Con quale regista italiano lavorerebbe? «Fellini e Pasolini, ma sono fuori tempo massimo, vero? (Ride - ndr)».
Quali sono i suoi modelli cinematografici? «Ho avuto fortuna di avere una madre che amava cinema e teatro alla follia. Mi ha fatto conoscere una varietà incredibile di talenti, come Katherine Hepburn, Spencer Tracy, Cary Grant, Bette Davies».
Il ruolo più difficile da interpretare? «È stupido per un attore mettere in fila i propri ruoli e parlare di difficoltà, quando invece si tratta di pura gioia, un piacere, una meraviglia avere il lusso di cambiare pelle, per lavoro devo fingere e non è poi tanto difficile. In unmon”logo teatrale una volta il personaggio raccontava che a 10 anni ha raccolto le patate in campagna sotto un sole cocente, ma poi ha studiato legge e da quando è diventato avvocato non ha più lavorato un solo giorno in vita sua… nel senso che facendo quello che amava non sentiva la fatica».
E lei come mantiene viva la scintilla della passione nel suo lavoro? «Il continuo interesse che nutro verso questo mestiere. Non voglio passare la vita intera a cercare il solco nel disco che funziona e ripeterlo ancora e ancora. Adoro svegliarmi e chiedermi: “E ora? Cosa mi aspetta dopo?”. E soprattutto: “Perché no?”».
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