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Penélope Cruz: Un no mi ha salvato la vitaPenélope Cruz torna accanto al marito Javier Bardem con la sfida maggiore della carriera, “Escobar”. Ha amato a tal punto il film da iniziare ad “odiare” il consorte… A maggio di nuovo insieme apriranno il 71° Festival di Cannes con il film EveryboMar 27 Mar 2018 | di Alessandra De Tommasi | Interviste Esclusive
Quando l’amore diventa dipendenza iniziano i guai seri. Ti piace qualcosa al punto di star male. Troppo cioccolato, troppe sigarette, troppe birre. Penélope Cruz l’ha provato sulla sua pelle quando ha deciso d’interpretare la giornalista innamorata del narcotrafficante più temuto al mondo, “Escobar”, che dà il nome al film, presentato in anteprima alla Biennale lo scorso anno.
Quell’uomo, un mostro e un criminale, ha sul grande schermo le sembianze del marito Javier Bardem, coinvolto nel progetto anche in qualità di produttore. Guardarlo negli occhi, allora, sul set è diventato quasi impossibile… Ci spiega come si è sentita a guardare il suo compagno di vita mentre si comportava come lo spietato Escobar?
«Javier emanava una tale energia negativa che dopo meno di un mese di ciak stavo diventando pazza. Dico sul serio: lo guardavo e non vedevo più mio marito, ma il personaggio e mi dava la nausea. Era una trasformazione necessaria, lo so, ma ad un certo punto ho iniziato a contare i giorni, non vedevo l’ora che finisse quella tortura. Soprattutto quando Virginia, la donna di cui si suppone fosse innamorato, gli chiede aiuto quando è ridotta in disgrazia a causa sua e lui la tratta in maniera disumana e crudele».
L’ha incontrata?
«Non è stato necessario, avevo migliaia di ore di girato, tra le interviste fatte e ricevute, e poi non volevo esserne influenzata in alcun modo. Voglio che sia chiara una cosa: la violenza che mostriamo sullo schermo non è gratuita come un videogame, non vogliamo mostrare il narcotraffico come un fenomeno affascinante, ma mostrare le conseguenze di una scelta del genere. Lo so che il cinema non ha il potere di cambiare il mondo, ma ha comunque una grande responsabilità sociale».
Pensa che quindi non si possa flirtare con il potere senza scottarsi?
«Virginia dice nel libro, e io lo ripeto nel film: “Non mi interessa come lui fa i soldi, ma come li usa”. Sapeva che era implicato con la droga, certo, ma non avrebbe mai immaginato che il narcotraffico avrebbe distrutto tante vite, inclusa la sua. Mi sono chiesta come avesse fatto una professionista del suo calibro, una donna colta e istruita, a lasciarsi trascinare tanto a fondo. Si è rovinata la carriera e da allora nessuno l’ha più assunta. Non volevo dipingerla come un’eroina, perché non lo è, ma neppure giudicarla. Abbiamo chiamato le cose con il loro nome, con rispetto, ma anche con una distanza emotiva. Certo, Virginia non è Pablo, non si può certo metterli sullo stesso piano di responsabilità, ma lei è una che guarda dall’altra parte davanti alle sue atrocità e ne diventa vittima».
Com’è possibile?
«Misura l’amore sulla base di quanti soldi lui spende per lei e a me non sembra neppure la stessa donna che è riuscita a tener testa a cinque politici maschi, battendoli tutti in preparazione».
Qualcuno ha mai usato il potere per controllarla?
«Ricordo una situazione particolare, che non ho mai raccontato finora. Avevo 19 anni, ero volata negli USA dalla Spagna per partecipare ad un grande progetto, ma arrivata in America mi hanno messo davanti un contratto totalmente diverso da quello che mi avevano mostrato prima di salire sull’aereo. Ero giovane, non parlavo bene inglese, ma ero comunque testarda abbastanza da non starmene zitta davanti alle ingiustizie. Mi sono arrabbiata al punto da riuscire a parlare fluentemente senza neppure sapere come. La proposta di quel produttore includeva una serie di cose che non avrei voluto fare, allora gli ho detto: “Sai una cosa? Vai all’inferno, non lo firmo”. E sono ripartita subito. In quell’occasione non ho avuto paura, anzi non sono mai stata meglio in vita mia, perché quel “no” è stata la lezione più importante. Sono tornata a casa con dignità, pensando che non avrei mai più messo piede ad Hollywood».
Si sbagliava.
«Sì, perché dopo aver fatto un film in Spagna mi ha offerto una parte Stephen Frears - che adoro – e così ho girato “Hi-Lo Country”. Quel “no” mi ha dato coraggio in un momento in cui mi sentivo esposta e senza esperienza, è la cosa di cui sono maggiormente orgogliosa nella mia vita».
Chi gliel’ha insegnato?
«I miei genitori mi hanno insegnato la dignità. A casa avevamo tutto il necessario, ma non eravamo ricchi, mi hanno detto che devi lavorare duro per andare avanti nella vita e per guadagnarti il rispetto di te stesso».
L’ha considerato un comportamento sessista?
«Ovvio che lo fosse: in un’altra situazione mi sarei seduta con regista e sceneggiatore, per capire come far funzionare la situazione. Invece mi hanno messo in una stanza convinti che fossi una ragazzina tanto disperata da accettare qualsiasi cosa. Sono sicura che questi comportamenti accadano ovunque e a molte donne, non solo alle attrici».
Lavorare con suo marito l’aiuta a sentirsi più protetta?
«Javier e io parliamo di cose che capiamo, ci diamo consigli e condividiamo esperienze: in una relazione tutto questo è un valore aggiunto».
Cos’è cambiato dal primo set insieme, “Prosciutto prosciutto”?
«Sono passati 25 anni e noi eravamo ragazzini, per la prima volta alla Mostra del cinema di Venezia. Siamo andati fuori di testa all’arrivo in barca di Jack Lemmon, ci guardavamo dicendo: “Caspita, quest’uomo ha lavorato con Marilyn Monroe”. Tornare in Laguna insieme fa uno strano effetto, da un lato mi sembra che sia ieri, dall’altro mi pare che il tempo voli…».
Di quale altro artista è un’ammiratrice sfegatata?
«Meryl Streep: ogni volta che la incontro qualcuno mi deve separare da lei, perché non riesco a trattenere l’emozione.
Il mio rispetto per il suo talento è quasi ossessivo».
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