Scuola: 50 anni dopo il 1968
Ieri il 1968 e quelle proteste nate in ambito universitario che hanno cambiato il mondo. Oggi, cosa rimane di quello spirito rivoluzionario nella scuola italiana?
Mer 29 Ago 2018 | di Angela Iantosca | Attualità
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Dopo il Sessantotto il mondo è cambiato. Nulla è più stato come prima. Lo dice la Storia, lo dicono le proteste che coinvolsero l'America e l'Europa occidentale, la nostra Italia e la Francia. Manifestazioni che presero le mosse dagli Stati Uniti e dalla contestazione contro la guerra in Vietnam che poi divennero rivendicazione di diritti umani. Partita dalle Università, le contestazioni degli studenti furono in grado di condizionare la realtà, la politica, la famiglia, il lavoro.
Fu quella di Trento la prima Università ad essere occupata e poi la Cattolica di Milano, la Facoltà di Lettere di Torino e poi di Roma, a cui fece seguito la manifestazione a Valle Giulia, sede della facoltà di Architettura. Furono i giovani il motore di ogni azione, loro a chiedere l'accesso alle Università per tutti, non solo per chi aveva frequentato i Licei Classico e Scientifico. Furono gli studenti che, grazie alla loro protesta, spinsero anche i lavoratori a chiedere di più: salari più alti e meno ore di lavoro.
Sono passati 50 anni e quell'entusiasmo, quella forza, quell'impeto sembrano scemati. Ce lo racconta Filippo, ex studente del Liceo Classico Dante Alighieri di Latina, in procinto di cominciare l'Università a Roma. Ce lo dice Rosaria Cascio, insegnante a Palermo che con amarezza osserva i sessantottini di ieri, ormai interni al sistema che un tempo combattevano, e gli studenti di oggi alle prese con la Buona Scuola che forse così buona non è e che di quelle proteste non conoscono né le motivazioni né l'entusiasmo.
GLI ANNI DI DON MILANI
Ma gli anni Sessanta sono anche gli anni di Don Milani e di una rivisitazione del modo di fare scuola. Sono gli anni della “Lettera ad una professoressa” che è un testo scritto dai ragazzi del priore di Barbiana e rivolto ad una scuola che non vuole e non sa cambiare, ad una scuola che seleziona bocciando e che scarta chi è in difficoltà, come ci ricorda l'Atlante dell'Infanzia a rischio pubblicato da Save The Children nel 2017: la Lettera è “un manifesto della protesta rispetto alla scuola così com'è e un'indicazione chiara di che cosa e come dovrebbe essere: un luogo che attribuisce pari dignità alle diverse culture e restituisce la parola agli esclusi” e nello stesso tempo un modo per mettere al centro i suoi problemi: “Le bocciature che fanno strage di poveri; la scuola che perde per strada una montagna di alunni l'anno e non torna a cercarli; la scuola strumento di differenziazione sempre più irrimediabile”. E a proposito di bocciature, secondo l'indagine internazionale PISA 2015 (Programme for International Student Assessment), promossa dall'OCSE, su un campione di quasi mezzo milione di studenti di una sessantina di Paesi del mondo, in media poco più di un alunno quindicenne su dieci, di quelli interpellati, afferma di aver dovuto ripetere almeno un anno.
Se andiamo a vedere i singoli Paesi si va dalla totale assenza di ripetenti in Giappone e Norvegia ai picchi di bocciatura in 13 Paesi dell'Ocse con il 30% degli alunni chiamati a ripetere l'anno almeno una volta nel periodo compreso tra la primaria e i primi anni della secondaria. In Europa i tassi più alti di quindicenni ripetenti si hanno in Belgio, Spagna e Portogallo. L'Italia è il settimo Paese per numero di bocciature.
ANSIA ITALIANA
In base ad una indagine che ha coinvolto 540mila studenti quindicenni appartenenti a 72 Paesi nell'ambito dell'indagine PISA OCSE 2015, emerge che in Italia la scuola fa rima con ansia. Il 56% dei nostri studenti è ansioso, il 70% prova molta ansia prima di un test, il 77% è nervoso se non riesce a fare un compito a scuola, l'85% ha paura di prendere brutti voti. L'Italia, insieme al Portogallo, secondo l'Ocse, dunque, si piazza al primo posto per l'ansia dei suoi studenti.
DIPLOMA E POI?
Secondo un sondaggio di Skuola.net che ha coinvolto 1500 ragazzi, oltre la metà dei “reduci” della maturità 2018 ancora non sa che vuole fare ‘da grande’. Appena il 48% degli studenti dice di avere un progetto in mente (solo se isoliamo i ragazzi del liceo si supera la maggioranza e si arriva al 58%). Il 60% degli intervistati, ad oggi, sembra orientato verso l’immatricolazione. Il 15% dei neodiplomati pensa proprio che, alla fine, si cercherà subito un’occupazione. Quasi 1 su 10 sembra tentato dal trasferimento all’estero (per studio o per lavoro è ancora da vedere). Ma c’è pure chi rinuncia in partenza a qualsiasi sogno: per circa 1 diplomato su 10, nell’immediato avvenire, si aprono le porte del club dei Neet (ovvero chi non studia né cerca lavoro); il 9%, infatti, dichiara di volersi prendere un ‘anno sabbatico’.
DISPERSIONE SCOLASTICA
Malgrado gli innegabili progressi compiuti negli ultimi vent’anni, la dispersione scolastica continua a mantenersi su livelli allarmanti. Circa 130.000 alunni abbandonano precocemente la scuola ogni anno, tra I e II ciclo: a metterli tutti insieme formano un bastimento di quasi 6000 classi alla deriva (Fonte: Atlante dell’Infanzia a rischio 2017 - Save The Children).
LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE
Sono molti gli alunni delle superiori che partecipano direttamente o indirettamente all'organizzazione della vita della scuola. Secondo una indagine svolta da Skuola.net, su 2500 studenti, un quarto avrebbe conosciuto una qualche forma di sospensione temporanea della didattica ordinaria da parte di studenti organizzati. Una possibilità questa di partecipare attivamente alla vita scolastica e di far sentire la propria voce che risale ai primi anni Settanta e che è stata via via istituzionalizzata vedendo esautorata la sua forza rivoluzionaria. Nel 2014, riporta l'Atlante di Save The Children 2017, appena il 23% degli aventi diritto è andato a votare per eleggere i rappresentanti nel primo ciclo e soltanto uno su dieci ha votato nelle scuole del secondo ciclo. E se guardiamo alle autogestioni, la loro regolamentazione tramite il DPR 567 del 1996 ha sicuramente favorito il loro inserimento di un momento creativo e di espressione del sé in un appuntamento di routine scolastica.
La pedagogia della relazione
Rosaria Cascio: come i 14 anni al fianco di Don Pino Puglisi hanno reso straordinario il suo metodo
di insegnamento
di Angela Iantosca
Non la voleva fare l'insegnante Rosaria Cascio. Non pensava che fosse quello il suo percorso. Voleva lavorare nel sociale, come aveva fatto per anni seguendo diversi progetti. Poi, un giorno, si è trovata dietro quella cattedra, con davanti i ragazzi di Palermo. Era il 1994 e la scuola è diventata la sua vita.
«Quando ho cominciato, ho trovato naturale il mio approccio con gli studenti, facendo emergere una vocazione a questo tipo di attività che non pensavo di avere. Di solito insegnare viene considerata una cosa facile e anche noiosa, in realtà è un lavoro complesso e avvincente».
Dove insegni?
«Io insegno italiano, storia e geografia alle scuole superiori. Ma c'è una cosa importante da dire che accomuna tutti gli ordini: la relazione con l'altro con tutto ciò che implica».
Come è cambiato il tuo modo di insegnare negli anni?
«Il mio modo di insegnare è sempre lo stesso, perché la ricetta è una: non recitare ed essere se stessi. Io nella vita, in qualsiasi situazione, sono sempre me stessa, quasi in modo disarmante. Dico che è disarmante perché è paradossalmente più semplice relazionarsi con una persona che recita: quando trovi una persona autentica, se sei abituato a recitare, non saprai come interagire. Recitare, invece, prevede un copione. Ma questa è una cosa che riguarda solo gli adulti. Per i ragazzi è più semplice avere di fronte una persona vera, perché loro sono se stessi sempre. Quindi la mia ricetta è essere così come sono. Ma una cosa è cambiata in questi 24 anni di insegnamento: è l'auto consapevolezza dell'importanza e della responsabilità di insegnare. Più lavoro e più mi rendo conto che dalle nostre capacità dipende il futuro di questi ragazzi. Se non hanno un docente che gli fa vedere che hanno belle risorse dentro se stessi, per loro diventa difficile approcciarsi alla vita».
Come erano i ragazzi a Palermo quando hai cominciato?
«Quelli sono stati anni in cui, in seguito alle stragi del 1992 che ci portarono via i giudici Falcone e Borsellino, il Ministero iniziò a promuovere progetti di educazione antimafia nelle scuole. Si susseguivano talmente tanti progetti che a un certo punto divennero troppi e i ragazzi non ne potevano più. Io ero particolarmente spinta da una forza interiore, anche perché ero stata impegnatissima e anche con Don Puglisi ero stata toccata direttamente dal significato di una perdita (Don Pino Puglisi è stato ucciso dalla mafia il 15 settembre del 1993 - ndr). Avevo un desiderio di riscatto. Eppure vedevo che i ragazzi dicevano che si parlava troppo di mafia. A quel punto ho capito che la scuola doveva cambiare approccio: meno parole e più testimonianze dirette di vita. La mafia non la combatti a parole, ma con una forma di pedagogia alternativa basata su progetti di conoscenza diretta da parte dei ragazzi. Per questo sono arrivata anche alla realizzazione, con i miei studenti, di spettacoli teatrali in cui loro possono essere protagonisti, sia nella scrittura che in scena, affrontando temi diversi».
Sei stata per 14 anni al fianco di don Puglisi: che rapporto avevate?
«Io ho conosciuto padre Puglisi nel 1978. Ero al mio primo anno di scuola superiore e lui era il mio insegnante di religione. Dopo poco è diventato direttore del Centro diocesano vocazioni. Io facevo parte del primissimo gruppo che ha messo su. Per quattordici anni ho seguito questo percorso di crescita. Avevo 28 anni quando è morto e da quel momento è cambiato il rapporto con lui. All'inizio provavo dolore e rabbia, cosa che ha bloccato me e tanti altri per una decina anni. Poi ho capito che bisognava reagire e allora ho cominciato a parlare. Mi sono ‘divorata’ padre Puglisi, come dico sempre. È stato un modo per elaborare il lutto. Allora ho cominciato a scrivere. A raccontare. L'obiettivo era consegnare al presente una pedagogia efficace e ripetibile contro la mafia. È morto sì, ma ci ha lasciato un modello di riferimento, un modo di essere. Per questo ho coniato l'espressione 'metodo Puglisi’».
Cosa non va nella Buona Scuola?
«Ci sono diversi punti che non vanno. Il primo è che la riforma è stata calata dall'alto. Poi la scuola è diventata una azienda. Per dirne una, guardiamo al bonus: alla fine dell'anno il preside dà un bonus, anche in soldi, ai docenti che hanno un punteggio alto. Per ottenerlo, devi fare molti progetti, più ne fai e più stelle hai. Quindi, questo ha determinato la fine della collaborazione tra insegnanti: perché, se ho una idea interessante, non la condivido con nessuno. Ho visto colleghi frequentare qualsiasi corso per avere punteggio, ma intanto dormivano. Poi il Diritto è stato quasi eliminato e questo significa che hanno reso ignoranti i ragazzi sui loro diritti, sulla capacità di leggerli e sul loro posto nel mondo. Se parliamo dell'alternanza, poi, sicuramente è troppa. Non puoi pretendere di portare avanti contenuti con un numero di ore che diminuisce: la riforma obbliga gli istituti tecnici a 400 ore di alternanza in tre anni. Mentre negli altri istituti a 200 ore, a discapito della didattica. Senza parlare di ciò che si fa in quelle centinaia di ore: attività che sicuramente non sempre sono funzionali ad un lavoro. Inoltre credo che i presidi abbiamo troppo potere: per fortuna ora è stata tolta la chiamata diretta».
Ci sarebbe bisogno di un Sessantotto?
«Io non l'ho fatto, ma lo conosco molto bene. E rimango stupita quando mi accorgo che i miei colleghi che lo hanno fatto oggi sono peggiori di quelli che contestavano, come se ormai si fossero piegati al sistema che un tempo provavano a cambiare. Ma quello che mi fa più rabbia sono le occupazioni scolastiche: fino a due anni fa c'erano ancora, ma quello che chiedevano erano la Lim e la carta igienica! Forse l'occupazione si dovrebbe fare per altro. A questo punto meglio questa nuova forma della cogestione che si fa ogni anno, durante la quale si sospendono le attività scolastiche classiche e i ragazzi programmano una scuola alternativa. Ma comunque non c'entra niente con l'occupazione che dovrebbe servire a portare avanti la battaglia per i diritti! Mi trovo ad essere più rivoluzionaria di loro e quando gli dico di fare, loro rispondono: “Ma lei ci crede ancora a queste cose?”. Questa frase me la sentivo dire da ragazzina dagli anziani e ora dai giovanissimi. Purtroppo vedo che spesso sono dei burattini che ogni tanto occupano per fare un po' di vucciria, ma non sanno niente di diritto o geopolitica. Altro che Sessantotto... È veramente difficile essere insegnanti efficaci per noi che ci crediamo, perché mi devo scontrare con i ragazzi… ma poi quando gli proponi di salire sul palco loro ci salgono. Quindi, forse, hanno solo bisogno di adulti in grado di coinvolgerli e di essere per loro esempi di vita».
IN SCENA
Cinque anni fa Rosaria Cascio, con una classe in cui c'erano situazioni gravi, ha adottato la scrittura come mezzo per raccontarsi. Dai racconti è nato un libro, “Io pretendo la mia felicità”, che è andato in ristampa e che i ragazzi hanno portato in giro e trasformato in spettacolo teatrale. “Un viaggio questo che continueremo anche ora che hanno tutti superato la maturità e sono usciti da scuola”, spiega Rosaria.
Il senso del manifestare
Filippo si è appena diplomato al Liceo Classico di Latina, si è iscritto a RomaTre e in futuro non vuole lasciare l'Italia
di Angela Iantosca
Filippo Vaccaro è uno di quegli studenti che ama capire, approfondire, leggere e mettersi in discussione. Durante gli anni del Liceo ha preso in mano il megafono, è stato rappresentante d'Istituto e ha protestato, ma sempre in modo costruttivo. Oggi che sta per cominciare l’Università a RomaTre, con noi parla di ciò che è stato e ciò che sarà.
Che cosa è per te il Sessantotto?
«Secondo me non ha tanto senso parlare di un secondo Sessantotto, un anno che conteneva al suo interno alcune contraddizioni, che forse è stato un fallimento, visto l'esito. Ma che nelle premesse poteva essere un successo. Mutando il linguaggio e gli slogan, oggi sarebbe interessante rianimare quell'idea di uno spirito di lotta, anche se gli interpreti non sono all'altezza dell'interpretazione».
Intendi gli studenti?
«I ragazzi sono molto diversi, credo per mancanza di interesse. Per conoscere noi stessi bisogna avere una idea del mondo e vedo che molti non hanno questa visione: credo che si soffra una crisi globale a livello studentesco. Questo non significa che non ci sono rivendicazioni da portare avanti o macro temi da affrontare come quelli dell'immigrazione, del razzismo, dell'odio per il diverso».
Che senso hanno le manifestazioni degli studenti?
«Io credo che avrà sempre senso manifestare, anche quando rischi di non ottenere nulla. Quando manifesti, entri in un clima di indignazione che è importante che si formi in noi ragazzi per imparare a non accettare tutto, per imparare a crescere. È bello la mattina arrivare a scuola e respirare un clima di comunità e aggregazione e credo che i risultati poi possono arrivare. Penso alle mobilitazione contro la mafia che c'è stata a Latina e che ci ha visti protagonisti: è servito a noi ed alla città. Recentemente ho incontrato Mario Capanna, che era il leader del movimento studentesco di 50 anni fa. Forse manca uno così oggi: uno capace di unire e dare un senso alla lotta. Forse oggi è più difficile, ma non impossibile».
Tu ti sei appena diplomato: che scuola è stata a livello studentesco il Dante Alighieri di Latina?
«Alcuni partecipavano di più altri di meno. Altri delegavano. In generale la bravura sta nel cercare di aggregare entrambe le parti anche perché ponendo un obiettivo comune si può formare uno spirito di unione».
E della riforma cosa ne pensi?
«Le riforme hanno creato solo disagi e tagli. La Buona Scuola forse, almeno lo spero, è il capolinea di questa deriva. Si chiama buona scuola ma in realtà ha creato problemi: il dirigente ha un grande potere e l'alternanza scuola-lavoro prevede anche attività poco utili e poco formative: io, per esempio, mi sono occupato della catalogazione delle piante, cosa che di per sé non è una cosa brutta, ma che forse ha poco a che vedere con il percorso scolastico intrapreso».
Hai mai pensato di andar via dall'Italia?
«Ci ho pensato, ma mi piace l'Italia che è un Paese dalla doppia faccia e voglio scoprirle entrambe».
FUGA DI CERVELLI
Negli ultimi 16 anni hanno lasciato il Mezzogiorno un milione e 883mila residenti, di cui la metà giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni, quasi un quinto laureati. Il 16% si è stabilito oltreconfine. Di questi quasi due milioni di ragazzi, 800mila non sono più tornati. Questo secondo il rapporto Svimez.
L’Istat, dal canto suo, nel 2016, ci racconta che abbiamo "perso" circa 10mila ‘cervelli’, il doppio di quanto registrato nel 2012.
Formati in Italia, trasferiti all’estero
Quattro italiani raccontano il proprio viaggio di sola andata verso la Francia, la Germania, l’Olanda e l’America
di Emanuele Tirelli
«Il problema non è solo la fuga dei cervelli italiani, ma anche che il nostro Paese non è in grado di accogliere quelli stranieri». Stefano Russo è un fisico nato e cresciuto a Caserta, che si è laureato, ha conseguito un dottorato ed è rimasto alla Federico II di Napoli per altri quattro anni di post-doc. Poi se n’è andato al Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi, dove è stato responsabile tecnico del contributo francese all’elettronica e al sistema di acquisizione delle immagini dell’Lsst (Large Synoptic Survey Telescope), chiamato il “telescopio dei record”. Adesso è allo SLAC National Accelerator Center, alla Stanford University in California, dove lavora per l’elettronica e il sistema di acquisizione dati del telescopio. «La mia formazione è tutta italiana, ma a usufruirne davvero sono istituti stranieri, perché nel mio Paese sono state messe in atto politiche che hanno scoraggiato la ricerca di base. E se la ricerca è fatta anche di collaborazioni e trasferimenti, ecco che con queste condizioni noi andiamo via, ma in Italia non arrivano gli stranieri», spiega Russo.
«In Francia è stato più facile, anche grazie agli enti pubblici che ti accompagnano e ti sostengono per realizzare i tuoi progetti». La livornese Alessandra Rey vive ad Aix-en-Provence. Dopo una laurea in Lingue e letterature straniere a Pisa e un corso di formazione europeo di un anno per organizzatori dello spettacolo, ha iniziato a lavorare per la lirica. «È stata una grande esperienza. Poi, all’inizio dei Duemila, alcune compagnie teatrali italiane sono state prodotte all’estero e le mie qualità professionali sono diventate interessanti, ma solo per i direttori dei teatri francesi. Ho vissuto per dieci anni in entrambi i paesi fino a decidere di trasferirmi definitivamente: ho fondato l’associazione SIC.12, con l’argentino Gustavo Giacosa, e realizziamo mostre di Art brut e arte contemporanea, performance e spettacoli teatrali. In Italia, ad Asciano, in provincia di Siena, ho creato Site Transitorie che si occupa di percorsi interessanti, portati avanti con grandi difficoltà. E pensare che in Italia, dopo i primi lavori, mi cercavano solo per trovare fondi per progetti altrui e mai per costruire qualcosa».
Poco più su, se n’è andato a vivere Francesco Mattace Raso, che diciannove anni fa ha scelto Rotterdam, dove è professore ordinario e direttore della Scuola di specializzazione in Geriatria. Crotonese, laureato in medicina a Messina, specializzato a Catanzaro, parla del «sogno della carriera universitaria: per coronarlo ho deciso di andare all’estero. Ho sempre lavorato al Policlinico universitario Erasmus University Medical Center, uno dei migliori centri in Europa. Sono andato via perché volevo provare nuove avventure in un mondo diverso e l’Olanda è un paese paragonabile agli Stati Uniti, dove se lavori sodo vieni premiato e le possibilità sono reali e per tutti. Qui, d’altronde, non è inusuale ricoprire ruoli chiave anche in giovane età, tant’è che sono diventato direttore della scuola di specializzazione a quarantatré anni».
E poi c’è chi ha scelto di lasciare l’Italia perché voleva essere indipendente. «Per cultura, siamo portati a muoverci all’interno di un reticolo di relazioni molto stretto e forte. Anche l’economia è di relazione», dice Martino Sacchi, milanese che vive a Berlino da undici anni e lavora nel suo studio di Rhizomet, con progetti per Germania, Italia e Cina. «Mi sono laureato al Politecnico, con un anno di Erasmus alla Bauhaus Universität di Weimar. Quando ho scoperto Berlino, ho pensato che mi ci sarei trasferito, anche perché volevo fare un percorso diverso, che non presupponesse un ambito di relazioni, ma che, lontano da ogni vincolo, prendesse direzioni impreviste. Berlino è la città ideale. La maggior parte di chi ci abita non è nata lì, tedeschi compresi. Ha ancora molte potenzialità da sfruttare e c’è posto per tutti».
Un creativo italiano a Londra
Emiliano Rattin: “Avevo un lavoro ben pagato, ma mancavano gli stimoli”
di Angela Iantosca
Ci incontriamo ad un bar un sabato mattina non lontano dal London Bridge. Sono giorni insolitamente caldi nella capitale inglese e la gente affolla le strade. Emiliano Rattin, nato in Veneto e di professione creativo, da quasi sei anni vive qui.
Perché hai deciso di andar via?
«Avevo 28 anni. Avevo un bel lavoro ed ero ben pagato, ma mancavano gli stimoli. Ad un certo punto mi sono messo in discussione. Il mio migliore amico si era trasferito a Londra. Allora mi sono detto: “Vado. Se non lo faccio adesso non lo faccio più”. L'idea era di partire per tre mesi: c'era già un’azienda che mi aspettava al ritorno in Italia. Ma non sono più tornato».
Quando si arriva cosa bisogna fare?
«La prima cosa è fare un bagno di umiltà. Venivo da un bello stipendio e un buon lavoro. Quando sono arrivato, mi sono trovato in una città enorme nella quale non sei nessuno, dove come te ci sono migliaia di altre persone che si stanno mettendo in gioco. Io non parlavo neanche la lingua. Allora ho frequentato per otto settimane un corso e ho cominciato a lavorare in un negozio con un lavoro temporaneo, cosa fondamentale per imparare in fretta la lingua! Mi chiamavano “Temp”, che sta per “temporaneo”. Non mi chiamavano neanche per nome. Ed avevo un capo che aveva 17 anni. Quella è stata forse la parte più dura. Poi ho deciso di restare, perché tre mesi non bastano ad entrare nel meccanismo, hai ancora la mentalità da turista. Ci vuole un anno per farla un po' tua la città».
Che lavori hai svolto?
«Sono stato commesso e store manager. Ho lavorato anche al British Museum: cose che non avevo mai fatto e che avevo paura di fare. Avevo sempre fatto grafica, ma qui capisci che, se c'è bisogno, si può anche imparare a nuotare! Ho conosciuto tanta gente che non ce l'ha fatta ed è ripartita. Ho conosciuto gente che è venuta qui a qualsiasi età. Perché Londra è una città che non giudica in base all'età, al sesso e ai gusti. Io arrivavo dalla campagna dove tutti giudicano: qui mi sembrava un paradiso. Ovviamente c'è un prezzo da pagare, che è la velocità: se non ci sei tu, dietro ce ne sono altri mille. Non solo: l'agiatezza della raccomandazione all'italiana non funziona. Ci sono le segnalazioni, ma se poi non funzioni, ti mandano via!».
Che crescita si può avere nel lavoro?
«Ogni sei mesi tu fai un resoconto con il tuo manager e in base a quello o resti nella stessa posizione o cresci, o di titolo o di salario o di mansione. Quando mi è capitato la prima volta ero incredulo! In Italia non accade mai!».
Com’è tutelato il lavoratore?
«Grande tutela: mi pagano la palestra, le spese mediche, mi rimborsano i pasti, il telefono. Ad un mio amico pagano anche il dentista. Diciamo che non ti senti sfruttato, ti senti parte del team. Prima di andar via ci pensi. Ma, comunque, se vuoi andare via, hai la possibilità di cambiare».
La Brexit ha cambiato qualcosa?
«Ancora non ho visto cambiamenti: mi è sembrata più una manovra politica. Ora sembra che stiano raccogliendo firme per un nuovo referendum. Non so cosa accadrà. La cosa che ho notato è che sono diventati un po' più rigidi quando devi aprire un conto in banca. Ma volendo aggirare l'ostacolo, lo apri on line…».
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