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Kevin Bacon: 60 anni da leggendaUn family man diretto al cinema dalla moglie e affiancato sul set dalla figlia: da “footloose” a “story of girl”Gio 30 Ago 2018 | di Alessandra De Tommasi | Interviste Esclusive
Un ragazzino ribelle alle prese con i primi batticuori: Kevin Bacon ha appena festeggiato 60 anni eppure conserva un’anima adolescente che non invecchia. Entusiasta e ironico, usa la schiettezza in maniera talmente disinvolta da risultare quasi oltraggioso. Poi guarda sua moglie Kyra Sedgwick e le sfiora l’avambraccio con disinvoltura, alla ricerca di una rassicurazione. Persino le leggende, insomma, hanno bisogno della dolce metà per diventare immortali e lui sembra decisamente sulla buona strada, come ha dimostrato all’Edinburgh International Film Festival, dove lei ha debuttato alla regia con “Story of a girl”, che lui ha interpretato assieme alla figlia mentre il primogenito ne ha scritto la musica. Chi l’avrebbe mai detto che il divo anticonformista di “Footloose” sia invece un family man? Glielo abbiamo chiesto nella capitale scozzese…
Sessant’anni è tempo di bilanci. In cosa si sente diverso o cambiato? Qual è il regalo più gradito di questo compleanno?
«L’aver acquisito una maggiore consapevolezza. Ora mi rendo perfettamente conto che la serenità non è qualcosa che mi dà il mondo esterno, ma che devo trovare dentro di me. Hollywood è un’industria particolare, che mette molto pressioni sugli artisti, soprattutto col passare dell’età. Con gli uomini che invecchiano in realtà si è più clementi, ma con le donne lo show business è meno clemente. Quando ero più giovane m’impuntavo su tutto, ora scelgo le mie battaglie, so cosa mi fa star bene e lo inseguo. In parte è merito della capacità di perdonare e passare oltre. E poi, certo, l’esperienza aiuta…».
Non ha avuto paura che facendosi dirigere da sua moglie avrebbe cambiato gli equilibri di coppia?
«No, ho piena fiducia in lei e mi sono preparato scrupolosamente, come di solito fa Kyra. Di solito il regista guida e dà consigli, ma noi ci conosciamo talmente bene che l’unica cosa che mi ha detto è stata: ‘Cerca di divertirti un po’ di più’. E, come sempre, aveva ragione e l’ho ascoltata».
Come ha scoperto la sua strada nella vita?
«In parte per pigrizia. Quello che cercavo era il successo, le donne e i soldi, tutto insieme. Mio fratello, maggiore di nove anni, faceva il musicista e mi sembrava un buon modo per arrivarci. Ripensandoci oggi mi sembra una decisione stupida almeno quanto quella di frequentare la scuola di recitazione per poi non dare ascolto agli insegnanti. Facevo il saputello, credevo di sapere tutto e mi annoiavo facilmente. E invece non si smette mai d’imparare».
Ci sono state delle battute d’arresto nella carriera?
«Dopo il successo del debutto in “Animal House” lo studio di produzione MGM voleva in pratica una specie di doppione con “A cena con gli amici”. Erano tutti arrabbiatissimi perché appena uscito non ha sfondato al box office, invece sono contento che sia venuta fuori una storia intima. E pensare che prima di essere preso per il mio ruolo avevo fatto il provino sia per il romantico Tim Daly che per il cool Mickey Rourke. Come tutto quello che poi è successo nella mia vita, ho trovato la strada nonostante tutto».
E “Footloose”?
«Mi ha dato totalmente alla testa, perché mi ha cambiato la vita per sempre e non me lo aspettavo, anzi in realtà ero piuttosto dubbioso al riguardo e non solo per le mie scarse capacità di ballerino (al punto che la sagoma del poster è quella della controfigura!). Già mi vedevo in ruoli impegnati alla Robert DeNiro, in pratica snobbavo il resto. Inevitabilmente dopo quella fama ingestibile mi sono perso un po’».
Com’è tornato con i piedi per terra?
«Grazie a Kyra, la mia roccia. Siamo sempre rimasti uniti come famiglia e i bambini viaggiavano con noi di set in set. E ce ne fregavamo persino se saltavano qualche giorno di scuola. Se ho un rimpianto è quello che loro abbiano subìto una notorietà che non hanno scelto».
Perché ultimamente si è dedicato alla tv?
«Avendo iniziato con le soap, non ne volevo sapere di fare un telefilm, al punto che quando il mio agente me l’ha proposto volevo quasi licenziarlo. Poi però mi sono guardato intorno e ho visto che alcune delle storie più interessanti passavano per il piccolo schermo e allora ci sono tornato. “I love Dick”, per esempio, sembra un film indie, sperimentale e non leggevo una sceneggiatura così buona da tanto. Lo ammetto, avevo le mie riserve, perché era prodotto da Amazon: come può fare un buon prodotto lo stesso posto che vende carta igienica online? Ecco, mi sbagliavo perché queste nuove piattaforme stanno facendo la differenza, quindi mi sono detto: cosa me ne frega il canale che lo rende disponibile se ho per le mani un buon prodotto?».
Oggi di quali ruoli ha paura?
«Di nessuno, me ne frego del danno ipotetico d’immagine. In teoria “The Woodsman”, in cui interpreto un pedofilo, è stato un rischio enorme, ma il mio compito d’artista è esplorare ogni lato della condizione umana e più è complesso e meglio è. La parola “mostro” oggi è usata fin troppo, ma per un attore non funziona: io non giudico né empatizzo con il personaggio. Mi ci immergo totalmente. Fare film, infatti, è una forma d’arte e l’arte è un atto d’amore incondizionato».
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