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Quarant’anni senza manicomiDisagio, disturbo o malattia mentale? Cosa è cambiato dalla legge BasagliaGio 27 Set 2018 | di Emanuele Tirelli | Attualità
3.974 strutture tra servizi territoriali, residenziali e semi-residenziali. Il totale dei posti letto per degenza ordinaria è di 4.831. In tutta Italia. E i dati, riferiti al 2016, sono stati pubblicati lo scorso maggio dal Ministero della Salute. Più recente è invece l’ultimo numero del Quaderni di Epidemiologia Psichiatrica, che evidenzia la mappa delle disuguaglianze nel nostro paese.
20/27 Ottobre - Settimana della Salute Mentale
Quei mesi a Grugliasco
Carlo Cora e la sua esperienza con gli ex degenti del manicomio, riuniti in una cooperativa Angela Iantosca
Era il 1994 quando Carlo, un giovane studente di Filosofia, decide di fare servizio civile presso il Comune di Grugliasco, in provincia di Torino. «In quei mesi ho voluto intavolare un rapporto molto stretto con l'ex ospedale psichiatrico, un polo manicomiale secondo solo a Collegno, sempre in provincia di Torino. Avevo strutturato una serie di iniziative orientate all'aspetto ricreativo degli ex degenti, tra cui un cineforum che attrezzavamo in una sala consiliare del Comune con un vecchio proiettore».
Erano passati 16 anni dalla Legge Basaglia, alcuni reparti in Italia erano ancora aperti, il ricovero coatto non esisteva più e la realtà con la quale si confronta Carlo non è più manicomiale, «ma di persone che avevano scelto di rimanere all'interno della struttura. Alcuni ex degenti, infatti, si erano organizzati in cooperative e avevano la possibilità di risiedere nelle vecchie strutture del manicomio con assistenza continua di medici e operatori specializzati. Si sapevano autogestire, non così tanto da poter stare in una casa autonoma, ma in modo sufficiente da poter godere di una certa libertà. Alcuni di loro, per esempio, non conoscevano l'uso del denaro! Comunque erano aiutati dagli operatori».
Erano anni in cui si dibatteva ancora sui benefici della chiusura dei manicomi, tra favorevoli e contrari. «Io condividevo l’idea che la malattia psichiatrica non è un problema di ordine pubblico, ma sociale e medico. La malattia mentale ha origini fisiologiche ed è dettata anche da contesti sociali particolari che portano le persone a superare quel limite che abbiamo, ma che noi non superiamo. Quel punto in cui il meccanismo si rompe. Il manicomio reiterava quella rottura all'infinito. Non c'era il concetto di recupero. Chi entrava non ne usciva, si poteva solo peggiorare entrando in manicomio, anche a causa di una serie di pratiche vicine al sadismo, basti pensare a come esercitava la sua professione quello che tutti chiamavano l’elettricista... O basti pensare alla prostituzione dei malati, di cui tutti sapevano e di cui si faceva finta di niente. La verità è che i contenimenti meccanici in quel caso, farmacologici ora, della malattia mentale, migliorano la vita dei parenti più che quella del paziente. La maggior parte dei ricoverati era portata da familiari che non sapevano come occuparsene. E il manicomio diveniva una forma di contenimento».
Una legge rivoluzionaria, dunque, la Basaglia che, spiega la Società Italiana di Psichiatria, ora fa i conti con una diversa realtà. «Oggi i numeri delle malattie mentali sono complessi e in costante aumento (tra poco più di 10 anni sorpasseranno le patologie cardiovascolari e si posizioneranno al primo posto nel mondo secondo le stime OMS), ma sono anche più chiari di 40 anni fa». L’aumento, infatti, dipende non solo dalla comparsa di nuove patologie, ma anche dalla migliorata capacità e velocità di diagnosi, che consente di intervenire precocemente. La maggiore chiarezza dei dati, invece, dipende dalle neuroscienze che hanno compiuto passi da gigante, identificando e specificando i meccanismi biologici coinvolti in molti disturbi psichici, garantendo, grazie al progresso della ricerca medica e farmaceutica, cure più efficaci, alle quali si sono aggiunte tecniche di intervento psicoterapeutico e riabilitativo sempre più mirate.
«Dopo 40 anni – aggiunge Enrico Zanalda, segretario nazionale della Società Italiana di Psichiatria e direttore del dipartimento di salute mentale dell’ASL Torino 3 – possiamo ribadire che il sistema dei servizi di salute mentale italiano, unico in Europa senza ospedali psichiatrici, è tra i pochi ad essere interamente appartenente al Sistema Sanitario Nazionale, e ha la legislazione più liberale in termini di limitazione della libertà individuale, tramite l’Accertamento Sanitario Obbligatorio (ASO) e il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO). Anche dal punto di vista dei contenuti normativi sul ricovero coatto in ospedale, la 180 non mostra l’età che ha e le procedure risultano tutt’ora moderne. Viene posta in evidenza la sola presenza della malattia mentale e non della pericolosità e vengono garantiti tre livelli di controllo: livello sanitario (due medici), livello amministrativo (Sindaco) e livello giuridico (Giudice Tutelare). Siamo convinti che il maggior merito di questa legge fu proprio quello di circoscrivere l’intervento psichiatrico forzoso alla patologia mentale, e non al comportamento ‘pericoloso’, abolendo il concetto di ‘pericoloso a sé o agli altri o di pubblico scandalo’ che caratterizzava il precedente ricovero coatto in manicomio. Ha inoltre escluso dal procedimento attuativo la necessità dell’intervento delle forze di Pubblica Sicurezza».
E a proposito di sicurezza, soprattutto alla luce di alcune dichiarazioni inopportune pronunciate in merito al pericolo rappresentato da chi soffre di disturbi mentali, non risulta alcun incremento dei reati contro la persona da parte di queste persone e che non più del 5% dei reati gravi è attribuibile ad esse.
NON SOLO SCHIZOFRENIA
«Attualmente – spiega Bernardo Carpiniello, presidente della Società Italiana di Psichiatria (SIP), professore ordinario e direttore del dipartimento di psichiatria all’Università di Cagliari – il 20% circa della popolazione afferente ai Dipartimenti di Salute Mentale italiani è costituta da persone affette da schizofrenia o altri disturbi mentali dello spettro psicotico. Il resto è costituito per circa il 31% da disturbi dell’umore (depressione maggiore 23,5 e disturbo bipolare 7,5%), il 13,5% da patologie comunemente indicate come disturbi nevrotici (quali disturbo ossessivo compulsivo, da stress post-traumatico, di panico o da ansia generalizzata, fobici o somatoformi). Una quota significativa è costituita da altre patologie in crescente ascesa come i disturbi di personalità (circa il 7%, spesso in comorbidità con altri disturbi mentali), da altri disturbi psichici e da uso di sostanze (circa il 18%), da quelle ‘tradizionali’, quali alcol, eroina, cocaina, cannabis, a quelle ‘nuove’ quali cannabinoli e psicostimolanti sintetici, e dalle cosiddette dipendenze comportamentali (circa il 4,5%). Una novità di questi ultimi anni riguarda le problematiche psichiche legate alla popolazione immigrata, in crescente ascesa che, in alcune Regioni Italiane, soprattutto nel Centro Nord, raggiunge circa il 10% della utenza totale».
LA SPESA DELLO STATO
Quanto alla spesa per la Salute Mentale, l’Italia è al 20° posto in Europa. Secondo i dati Ministeriali (dati relativi al 2015 e 2016) il budget medio nazionale per la salute mentale è di circa il 3,5% di quello complessivo della Sanità, a fronte di stanziamenti in Paesi Europei di rilevanza simile all’Italia, come Francia, Germania e Regno Unito compresi fra il 10 e il 15%, lasciando sguarniti di personale i servizi, che attualmente hanno un deficit di operatori che va dal 25 al 75% in meno dello standard previsto di 1 operatore ogni 1500 abitanti in 14 regioni/province autonome su 21.
DAL 1978 CURATI E SEGUITI 20 MILIONI DI ITALIANI
Seppur faticosamente e non senza problemi, compresi quelli a carico delle famiglie che nessuno disconosce, in questi 40 anni è stata creata in Italia una vasta e capillare rete di strutture psichiatriche, articolata in 163 dipartimenti di salute mentale, 1460 strutture territoriali, 2284 strutture residenziali che ospitano oltre 30mila persone, 899 strutture semiresidenziali, 285 servizi psichiatrici di diagnosi e cura ospedalieri, per un totale di 3623 posti letto con altre 22 unità ospedaliere accreditate per ulteriori 1148 posti letto. “Questo sistema – spiegano dalla Società Italiana di Psichiatria - garantisce ogni anno assistenza a oltre 800mila persone grazie all’impegno e alla dedizione di circa 30mila operatori. Ogni anno si registrano 370mila nuove visite per problemi legati alla psiche. Dal 1978 ad oggi si parla di circa 20 milioni di italiani curati e seguiti senza bisogno di manicomi.
Da luogo di privazione a casa della danzaL’ospedale psichiatrico più grande d’Italia diventa la Lavanderia a Vapore, popolata da artisti e cittadini, un luogo abitato e abitabile
Testo di Nadia Afragola Foto di Fabio Melotti
Il 13 maggio del 1978, esattamente 40 anni fa, la legge Basaglia aboliva i manicomi e restituiva dignità e pieni diritti civili ai malati psichiatrici. Ma quei manicomi in cui morivano i “matti” che fine hanno fatto?
La Lavanderia a Vapore di Collegno più di qualsiasi altro luogo è il simbolo della trasformazione. Sono trascorsi oltre 160 anni dall’istituzione del Manicomio di Collegno (1853) e 41 dal primo atto concreto che ne decretò il superamento. Nel 1977, anticipando di un anno la legge Basaglia, l’Amministrazione Comunale fece abbattere un lungo tratto del muro di cinta che circondava la struttura. Negli anni successivi, si completò l’opera di demolizione del muro e quel luogo di coercizione si trasformò in un parco aperto a tutti i cittadini, in uno spazio per la cultura e lo svago. Nel 2004, a seguito della chiusura definitiva dell’ex ospedale psichiatrico, cominciarono i lavori di restauro del padiglione “lavanderia” e quattro anni dopo c’è stata l’inaugurazione della nuova Lavanderia a Vapore diventata nel frattempo un centro di eccellenza della danza. Oggi lo spazio è affidato alla Fondazione Piemonte dal Vivo e al suo direttore Matteo Negrin.
Avete trasformato il Regio Manicomio di Collegno, l’ospedale psichiatrico più grande d’Italia. Non fanno paura quei 100 anni di attività dell’ospedale?
«Gli anniversari servono a quello, a misurare la distanza percorsa rispetto al punto di partenza: la legge Basaglia. In Italia grazie ad un percorso condiviso con il territorio e le istituzioni è facile toccare con mano i passi avanti fatti e come quei luoghi di annullamento della persona siano solo un brutto ricordo. Entravi come persona e diventavi malato, venivi spogliato del concetto di personalità. Oggi quell’ospedale si è riempito di artisti, di cittadini, è un luogo che arricchisce l’essere persona e si pone nel punto più distante che si possa misurare dall’uso pregresso di quegli spazi».
Fino a quando sarà il direttore di questo luogo di rinascita? «Sono in carica da un anno, mi aspettano altri 2 anni di lavoro con la possibilità di un ulteriore mandato. Dal mio arrivo il centro regionale per la danza è diventato una delle 40 case Europee della Danza, il secondo centro riconosciuto in Italia, insieme al CSC di Bassano del Grappa. Uno spazio abitabile e abitato non un museo».
A 40 anni dalla legge Basaglia come è cambiata l’Italia? «Il malato psichiatrico era concepito come colui che viveva fuori dal perimetro della società civile, al di là delle persone normali. Si sono fatti ampi passi in avanti per far sì che le persone con delle disabilità mentali siano riportate laddove c’è vita. Dovremmo riflettere tutte le volte che siamo portati a vedere nel diverso il nemico».
I matti come si rendono cittadini? «Con il concorso di più soggetti, dalle Asl, alle Comunità di prossimità, in mezzo si collocano le istituzioni con i processi e i sistemi di inclusione del caso».
Collegno ai tempi si dimostrò talmente coraggiosa da anticipare la legge abbattendo il muro che separava la realtà dai matti. Perché lo fecero?
«Il coraggio è un’arma potente e Collegno ha sempre avuto delle Amministrazioni con quel tratto di coraggio, peculiarità che gli ha permesso di anticipare la legge e di ragionare sulla rigenerazione degli spazi, coinvolgendo l’intera comunità, ragionando a medio e lungo periodo. Il 15 ottobre inaugureremo un’altra ala dell’ex manicomio, all’interno alcuni corsi dell’Università degli studi di Torino».
Come si sensibilizza al disagio psichico?
«Ci sarebbe da capire quante persone non hanno nella propria cerchia parenti con una esperienza di questo tipo. Sto lavorando con degli architetti milanesi ad un progetto di rigenerazione per malati di Alzheimer. Mi sono chiesto perché un intervento così massiccio per una nicchia di popolazione. Sapete cosa mi è stato detto? Che entro il 2030 una persona su tre avrà a che fare con l’Alzheimer, personalmente o per un parente prossimo. Un malato non lo includi trattandolo da diverso. C’è differenza tra integrazione e inclusione. La diversità va percepita come ricchezza non come pericolo».
Siete uno dei uno dei centri italiani dedicati alle residenze artistiche, riconosciuti dal Mibact. Che vuol dire?
«Attraverso un bando pubblico o con chiamata diretta, artisti italiani e stranieri vengono selezionati e ospitati a Collegno, dove rimangono per un periodo che può andare da 15 giorni ai 3 mesi. Lavorano allo sviluppo della loro opera, attraverso un tutoraggio di professionisti, coreografi, danzatori.
Incontrano e si confrontano con tante persone in quello che è diventato un luogo permeabile con un forte impatto sul territorio».
La Lavanderia a Vapore è uno dei nuovi membri EDN – European Dancehouse Network. Chi sono gli artisti che ospitate?
«Il 70% degli artisti è italiano, ma la percentuale estera è destinata a salire per via dell’ingresso nella EDN. Sono Under 35 equamente divisi tra uomini e donne. A disposizione hanno una foresteria convenzionata, che può ospitare fino a 30 artisti. Il tutto calato in quello che era l’immenso parco del manicomio».
QUELLO CHE CI MUOVE
“Quello che ci muove” è il titolo delle attività 2018-2019 della Lavanderia. «Un titolo ispirato al libro “Quello che ci muove. Una storia di Pina Bausch” - spiega il direttore della Lavanderia a Vapore, Matteo Negrin -. Ricorre il decennale della scomparsa di una delle più grandi danzatrici e coreografe del ‘900 e noi che facciamo danza contemporanea dovevamo fare una riflessione attenta in tale direzione. Quando in residenza parliamo con i nostri artisti non gli stiamo dando solo delle mura in cui stare, ma anche un supporto tecnico. A loro si chiede però di partecipare, con lo spirito e di condividere in pieno il nostro processo creativo. Lo dobbiamo a tutte le persone che in quei 100 anni sono stati spogliati della loro persona».
JE SO’ PAZZONel centro di Napoli l’ex OPG è stato occupato, trasformato e restituito alla città
Emanuele Tirelli
Il 2 marzo del 2015, gruppi di studenti, attivisti e lavoratori napoletani hanno occupato l’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario “Sant’Eframo” e l’hanno trasformato nell’Ex-Opg Occupato Je so’ pazzo (jesopazzo.org). Il nome viene proprio dal titolo di una canzone di Pino Daniele.
Siamo nel centro di Napoli, quartiere Materdei. Al numero 218 via Matteo Renato Imbriani c’era un vecchio convento del Seicento, poi diventato carcere nel 1898, manicomio criminale nel 1912 e Opg. Per aspettare la chiusura bisogna attendere il 2007, quando la struttura viene completamente abbandonata. Resta così per otto anni, fino alla trasformazione che l’ha restituita alla città con un’anima nuova.
L’OCCUPAZIONE
«Cercavamo un luogo di aggregazione per iniziative politiche e sociali», dice Francesco, militante dell’ex Opg. «Questo era il più interessante, non solo per le dimensioni, ma anche per il trascorso duro che ci interessava raccontare. In un quartiere in cui scarseggiano strutture e spazi pubblici per i giovani, abbiamo voluto che fossero loro a viverlo per primi e poi lo abbiamo attrezzato per il resto degli abitanti. Anzi, Je so’ pazzo si trova a metà strada tra Materdei e la Sanità, due dei quartieri più popolari del centro di Napoli. C’è stata subito un’intimazione di sgombero che per fortuna non ha avuto seguito, anche per il lavoro immediato che abbiamo fatto e per la petizione e la raccolta firme molto partecipata da tutto il quartiere. Ma oltre alla forza lavoro volontaria nostra e di quelli che ci aiutano, per risistemare spazi disastrati e fatiscenti abbiamo iniziato subito con feste per il quartiere, concerti, dibattiti politici e una raccolta fondi che ci ha permesso di poter rimettere in sesto il teatro, la palestra e la cucina».
COSA È DIVENTATO
Quello che era il campetto per l’ora di libertà, ora è il campo di calcetto. Le stanze dove si tenevano i colloqui tra famiglie e internati oggi sono biblioteca e aula studio. In tutto sono novemila metri quadri. Dove c’erano 250 ospiti, a fronte di una capienza massima di 150, oggi decine di persone partecipano ad attività che vanno dallo sport (arrampicata, boxe, kung fu, fitness, kick boxing) allo yoga, alle arti. Ci sono anche sportelli informativi e scuole di italiano per migranti, doposcuola, sportelli contro la povertà e dedicati alla medicina. Il programma è fitto e diviso per in una tabella ben precisa. Dal lunedì al giovedì (con orari e cadenze diverse), medici volontari fanno un grande lavoro di informazione, prevenzione e controllo, dalla medicina generale all’ematologia, passando per la ginecologia, la pediatria, la gastroenterologia e la chirurgia generale.
IL DOCUMENTARIO
Il regista Andrea Canova ha raccontato Je so’ pazzo in un documentario omonimo (prodotto da Inbilico Teatro & Film) che riporta alla luce la storia della struttura con uno sguardo particolare alla memoria, alle celle con le giunture dei letti di contenzione, al tempo che trascorre tra le mura, fino a una testimonianza diretta: Michele Fragna c’ha trascorso cinque anni e i suoi ricordi riaffiorano pure dai diari che scriveva durante la detenzione. E poi c’è l’esperienza iniziata nel 2015, la trasformazione e la restituzione alla città di un luogo considerato inagibile e quindi abbandonato. È così che le tracce del passato si mischiano alla rinascita di un bene comune, dove tutti partecipano, dove un gigante di cemento estraneo al quartiere e alla città ne è diventato invece parte integrante.
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