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Io, dottor sorrisoJankovic dal 1977 al fianco dei bambiniGio 28 Feb 2019 | di Nadia Afragola | Attualità
Per Momcilo Jankovic la giornata è una vita intera, il suo cellulare è acceso 24 ore su 24 ore, tutto l’anno e per lui “Ne vale sempre la pena” (questo il titolo del suo libro), anche quando la diagnosi non lascia speranza alcuna. Aiuta gli altri, prendendosene cura senza mai limitarsi solo a curarli.
Chi è Momcilo Jankovic? Quando ha capito che il suo destino era quello di salvare vite umane?
«Certe cose le senti dentro. E pensare che da giovane avevo paura del sangue!».
L’Italia è sempre stata la sua casa. «Sono nato a Milano. Mio papà era di Belgrado, è andato via dalla Ex Jugoslavia dopo la guerra, è immigrato e passando dall’Italia ha conosciuto mia mamma a Cusano Milanino. Un incontro che lo convinse a mettere su famiglia. Da quell’unione nacquero 5 figli».
Ha scritto un libro con Salvatore Vitellino, uno dei ragazzi che le devono la vita. Cosa c’è dentro? «Concetti veri che possono accompagnare un malato nel percorso di cura. Non è un libro di medicina o un testo tecnico. Ho fatto leva sul mio vissuto, Salvatore ha fatto si che la lettura fosse facile, non tecnica, e che facesse riflettere su chi ogni giorno vive in trincea».
Quando ha iniziato ad essere il “Dottor sorriso”? «Qualche anno fa, è un “titolo” nel quale credo molto. Il sorriso è il mio biglietto da visita nonostante le brutture della vita. La mia vita l’ho passata in ospedale, in quella terra di mezzo che scardina la nostra abitudine alla vita. È la metamorfosi della resilienza».
La sua è una vita aumentata da migliaia di vite. Come fa a chiuderle fuori quando è a casa? «Occorre avere una famiglia che accetti e viva con te il tuo quotidiano. Devi staccare la testa. Credo nella qualità della vita delle persone, che non sono inesauribili e devono avere il tempo di ricaricarsi. Farlo vuol dire anche rispettare chi prosegue la tua attività in tua assenza. Nessuno è indispensabile».
Come si sorride nel dolore? «Certi insegnamenti li ho ricevuti dai bambini, ti insegnano la spontaneità, a loro interessa il gioco, ecco perché vogliono superare il dolore. Noi adulti siamo cervellotici, riservati nelle manifestazioni. Il limite di un medico è quello di non poter guarire tutti, ma può far stare bene tutti, anche chi è destinato a morire. Ho accompagnato alla morte più di 600 bambini, la morte è prevista dalla vita e non solo per vecchiaia. La forza nel voler garantire una qualità di vita alta a quei bambini mi ha reso l’uomo che sono».
Come si sopravvive alla morte di un figlio? «Una ragazza di 16 anni che seguivo in ospedale era assistita dal papà. Una notte venne da me a dirmi che sua figlia continuava a dirle di andare e così aveva deciso di fare un salto al bar a prendere un caffè per poi tornare. Lo rassicurai dicendogli che sarei stato con lei fino al suo ritorno. Brigida si chiamava, mi guardò, mi abbracciò e morì. La figlia quando ha iniziato a sentire la vita venire meno ha preferito allontanare il padre. Ci sono cose che non risolviamo, ma la delicatezza che quella ragazza usò verso suo padre fu un grandissimo atto d’amore. Il padre elaborò il lutto non il dolore, quello è indelebile e puoi capirlo solo se lo provi».
Si dice che le guarigioni cambino la scala di valori. In che senso? «Fanno capire cose alle quali la gente non è abituata. Abbiamo chiesto a 100 ragazzi guariti di dirci cosa li avesse aiutati a superare i momenti bui. Il 60% di loro ha risposto la gente, i compagni, tutti coloro che hanno dedicato attenzione al loro problema. Il malato non è un eroe, semmai un guerriero con capacità da eroe che mette in discussione la sua vita, la stravolge anche solo temporaneamente».
Come si guarda negli occhi un bambino e gli si dice che ha un tumore e che morirà? «Non l’ho mai detto e mai lo dirò. La speranza di vivere non si nega a nessuno. Un ragazzo su 600 negli ultimi 20 anni mi ha chiesto se stava morendo guardandomi negli occhi. Non puoi mentirgli, non vendiamo miracoli. Spesso non ti chiedono cosa accadrà neppure quando sentono che stanno perdendo la loro sfida più importante. Ci sono fasi in cui a noi medici rimane solo il compito di aiutare i pazienti ad arrivare al meglio alla fine, patteggiando con la morte in una sorta di accettazione inconsapevole».
La disperazione si affronta con la chiarezza delle informazioni. Le parole quanto pesano? «Le parole sono essenziali. È un processo dinamico che si trascina nel tempo. Se ti dico che iniziamo la terapia tu sai che perderai i capelli, che non potrai andare a scuola, che starai male, di tutto il resto non ti importerà nulla, perché sarai il protagonista di un dramma».
C’è stato un momento in cui la fiducia che la gente riponeva in lei ha vacillato? «Certo. Oggi la percentuale di guarigione si aggira intorno all’85%. Un tempo era molto più bassa. Ricordo un ragazzo di 16 anni, aveva una paura folle della leucemia per quello che aveva letto. Per due giorni smise di parlare dopo la diagnosi. I genitori mi chiesero cosa gli avessi detto, erano sconcertati. Risposi che non nascondo lo stato delle cose ai miei pazienti. Quello del ragazzo si rivelò un silenzio meditativo, dopo due giorni fu un fiume in piena di domande. Guarì, diventammo amici, si sta laureando».
Fine vita. Cosa ne pensa? «La morte fa parte della vita. Le persone vanno aiutate a capire, non convinte che tutto quello che era possibile è stato fatto, non andrebbe protratta inutile sofferenza. Non promuovo l’eutanasia, ma non servono cure sproporzionate che tolgono ogni forma di qualità alla vita del malato. Si vive se si è consapevoli, coscienti, altrimenti non è vita. Abbiamo paura di certe azioni e ci nascondiamo dietro le leggi».
La malattia perché appartiene alle madri? «È un pensiero comune che non condivido pienamente, ho incontrato padri splendidi. I figli nascono dal ventre della madre, il cordone rimane, ma non vanno tolti meriti ai padri. Un bambino di 4 anni un giorno chiese a suo padre di non andare a lavorare e di rimanere con lui in ospedale, diceva che sarebbe successo qualcosa di brutto e che lo avrebbe voluto vicino, era il suo super eroe. Il padre gli diede ascolto, il bambino morì quel giorno e a me rimase il compito di provare a trasformare la pesantezza del momento in leggerezza».
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