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Hilary Swank: Per amore di mio padreAl culmine della carriera, Hilary Swank ha lasciato Hollywood e messo in soffitta i due Oscar per dedicarsi con tutta se stessa al padre malato. Ora è tornata: sorridente, sposata e con un film delicato sull’AlzheimerGio 28 Feb 2019 | di Alessandra De Tommasi | Interviste Esclusive
Al culmine della carriera, Hilary Swank ha lasciato Hollywood e messo in soffitta i due Oscar per dedicarsi con tutta se stessa al padre malato. Ora è tornata: sorridente, sposata e con un film delicato sull’Alzheimer.
“Arrivederci, Hollywood. O forse addio”: più o meno avrà pensato questo Hilary Swank quando ha salutato il mondo dello spettacolo senza rimpianti, anche se carica di gratitudine, per dedicarsi al padre che stava aspettando un trapianto di polmone. Ha lasciato le scene senza voltarsi indietro, finché, tre anni dopo, l’uomo è guarito e lei è tornata in forma smagliante, che nel suo caso non vuol dire “con una silhouette da favola”, ma con un sorriso incantevole. E una grinta da fuoriclasse: al Festival di Toronto, infatti, ha presentato “What they had”, dove interpreta una figlia alle prese con l’assistenza della madre, malata di Alzheimer. Il film, ancora inedito in Italia, è da tenere d’occhio perché non intende affatto rendere glamour il dolore, ma dargli una dimensione più umana. Ancora una volta l’attrice due volte Premio Oscar ci mette la faccia… Ha pensato a cosa stava rinunciando quando ha messo in pausa la carriera?
«Guardando indietro, posso dire cosa ho guadagnato: ho messo a fuoco ancora di più le mie priorità e ne sono uscita più forte. Era da quando avevo 15 anni che continuavo a lavorare ininterrottamente».
Eppure la sua famiglia non viene dal mondo dello spettacolo. «Non sono figlia d’arte, ma da piccola mi affascinavano le recite a scuola, pur senza sapere che avrei potuto farlo di professione. Mia madre però mi ha sempre insegnato che con il lavoro duro si può arrivare ovunque e le ho creduto».
Qual è stato il suo modello? «Da piccola guardavo alle scelte professionali di Meryl Streep e ho capito che essere donna in un ambiente maschile comportava una dose maggiore di perseveranza, così sono andata sempre avanti, nonostante tutto. Ho usato la mia sensibilità come punto di forza, d’altronde recitare vuol dire proprio empatizzare con gli altri».
Il suo primo Oscar lo ha vinto per “Boys don’t cry”, un ruolo delicato e poco ortodosso, quello di Brandon, un ragazzo nato nel corpo di una donna… «Sono orgogliosa che quella storia abbia aperto un dibattito. Io e la protagonista abbiamo radici simili: siamo nate nello stesso ospedale in Nebraska e cresciute nello stesso ambiente, che non definirei proprio una zona di aperte vedute, anzi un posto poco avvezzo ad accettare la diversità. Lei ha avuto una crisi d’identità ed è stata uccisa prima ancora di fare il cambio di genere, ma questo genere di tragedie succedono ancora oggi nei confronti di chi cerca e dà amore e viene invece ammazzato per le sue scelte».
Si è sentita a suo agio nelle sembianze maschili? Hanno cercato la persona giusta per la parte per tre anni e poi è arrivata lei… «Sono partita svantaggiata, perché mi hanno detto che il mio aspetto non andava bene, ma sono stata sfacciata e mi sono presentata al provino. Li ho spiazzati per la tenacia e mi hanno chiesto di volare a New York per rivedermi, solo che non mi avrebbero coperto le spese di viaggio e sono entrata in crisi, finché il mio agente non mi ha quasi obbligata a salire sull’aereo».
E poi? «Ho iniziato a farmi passare per maschio in pubblico per entrare in quell’ordine di idee e quando sono tornata in California ho detto di chiamarmi James e di essere il cugino di Hilary. Sono andata avanti con questa storia per un mese intero, quando però al ristorante si riferivano a me al femminile mi chiedevo subito cosa avessi sbagliato, così ho provato sulla mia pelle il disagio di essere trattata diversamente».
In “What they had” veste anche i panni della produttrice. Perché ha creduto così tanto nel progetto? «Perché mi ha fatto sentire vulnerabile ed esposta, su un tema a me molto caro. In quel ruolo c’è tanto di me e del mio passato. La considero una storia d’amore tra fratelli e fra madre e figlia, in una situazione disfunzionale, certo, ma anche tenera».
In che senso? «Pensa alla demenza: come fai a sapere chi sei se non ricordi chi sei stato? Per parlarne ci siamo affidati a molte storie vere e ad una regista donna al suo debutto, una sfida su tutti i fronti».
Non è stato troppo doloroso immedesimarsi nel dramma che ha vissuto con suo padre? «Motivo in più per parlarne. Certe scelte si fanno con il cuore più che con la testa. Se inizi a riflettere troppo e ti focalizzi sulle conseguenze potenzialmente negativi allora lasci che sia la paura a vincere e a guidarti».
Le è mancato Hollywood? «Io amo recitare e tornare a farlo mi ha rinvigorito, ma lasciare il mondo dello spettacolo per riavvicinarmi a quello che amo è stato un regalo enorme. Avere la possibilità di stare vicina a papà nel momento più duro della sua vita mi ha dato la spinta per accettare il film “What they had”: è fondamentale parlare di coloro che si prendono cura di chi non sta bene. La vita somiglia davvero ad un cerchio e ora l’ho capito davvero».
La disciplina sembra davvero il suo asso nella manica, come ha dimostrato anche nel secondo film da Oscar, “Million Dollar Baby”. Che effetto le fa ripensarci oggi? «Provo la stessa emozione dell’ultimo giorno di riprese, che coincideva con il mio trentesimo compleanno, mi sono detta che non poteva andare meglio di così, dedicare la vita a storie necessarie».
Possibile che non avesse paura di Clint Eastwood? «In fondo lui è un orsacchiotto, un uomo divertente che ti mette a tuo agio, anche se ha una figura che incute soggezione. Mi ha insegnato tanto, soprattutto con l’esempio: non ha un ego gigante e nella pausa pranzo non aspettava che qualcuno gli portasse un vassoio, si alzava e se lo andava a prendere in modo tale che tutti sul set avessero tempo di mangiare adeguatamente».
Rimpianti? «Di errori ne avrò anche commessi tanti, ma non ne vorrei dimenticare nessuno. Persino il ricordo più brutto ha un suo valore e va preservato».
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