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Willem Dafoe: Eroe e genioWillem Dafoe diviso tra il genio di Van Gogh e i super poteri di AquamanGio 28 Feb 2019 | di Alessandra De Tommasi | Interviste Esclusive
Un gran chiacchierone, Willem Dafoe. Appena inizia ad aprire il baule dei ricordi diventa un fiume in piena e non si ferma più. Viene quasi voglia di lasciarlo parlare senza interruzioni, ma la curiosità prende il sopravvento, soprattutto se si ha davanti il vincitore della Coppa Volpi a Venezia per “Van Gogh – At eternity’s gate”, un biopic fuori dal comune che ha già conquistato mezzo mondo, compreso il pubblico al Festival del Cairo. Nel frattempo è tornato al cinema anche con il cinecomic “Aquaman”, dimostrando una versatilità che pochi possono vantare. Dal genio della pittura all’eroe marino il passo non potrebbe essere più lungo: il denominatore comune resta lui, un artista che ha sfiorato l’Oscar tre volte, ma non crede alla fantomatica maledizione sui nominati all’ambita statuetta. Anzi ci ride su, mettendo in mostra con disinvoltura le rughe e i segni dell’età che avanza con magnifica grazia.
Cimentarsi con un gigante come Van Gogh l’ha intimorita? Lei ha interpretato Gesù per Scorsese, crede che Van Gogh si reputi una specie di Messia dell’arte?
«Chi può dirlo con sicurezza? Era di certo religioso e pensava che la Bibbia fosse il libro migliore mai scritto, in una certa fase della vita ha anche pensato di diventare sacerdote. Non so se si sia identificato con Cristo in maniera un po’ folle, ma ne ammirava molto l’operato».
Sa dipingere? «No, ma ho imparato quel tanto che bastava per sembrare credibile mentre usavo il pennello nelle scene. Più che un set, questa è stata un’esperienza di vita: di mattina giravamo velocemente, mentre di pomeriggio c’immergevamo nella natura e io mi godevo a tal punto quel momento da sentirmi davvero ispirato e felice».
Come se l’è cavata a dipingere? «All’inizio i colori erano tutti sbagliati, avevo un tratto tremendo, insomma un disastro… poi ad un certo punto si sono quasi trasformati e il tutto ha trovato un senso. Per me è questo il potere dell’arte. Van Gogh diceva che è già lì, nella natura, basta solo coglierla e tirarla fuori, renderla libera. Per lui dipingere significava smettere di pensare e lo capisco, ognuno di noi si ritaglia un’azione in cui scomparire…».
Molti attori detestano riguardarsi nei film, lei appartiene a questa categoria? «Non amo rivederli, ma non per timidezza o falsa modestia, ma perché mi mette ansia guardare indietro, soprattutto perché associo sempre le fasi della mia vita ai luoghi e al tempo in cui ho girato alcuni progetti».
Cosa ricorda del debutto cinematografico ne “I cancelli del cielo”? «L’umiliazione di essere stato cacciato dal regista Michael Cimino. Per ottenere la parte ho buttato al vento il contratto con la compagnia teatrale con cui lavoravo, convinto che fosse un’occasione da non perdere. Alla fine il film è durato otto mesi, un’eternità, e io sono stato lì per tre. C’era grande tensione per i ritardi e i continui cambi di rotta del regista. Un giorno dietro le quinte una collega mi racconta una barzelletta un po’ spinta e io scoppio a ridere. Cimino si gira di scatto verso di me e mi intima di tornare in hotel, senza alcuna spiegazione. Due ore dopo qualcuno ha bussato alla mia porta con un biglietto aereo in mano che mi avrebbe rispedito a casa. Ovviamente sono stato quasi del tutto tagliato dalle scene…».
Un’ultima curiosità. Qualche tempo fa ha interpretato uno scrittore cinico nel cult generazionale “Colpa delle stelle”. Può l’arte rendere insensibili? «In quel caso il mio scrittore è un uomo a pezzi, che si è identificato troppo con il suo libro, non sembra, ma prova compassione a suo modo, solo che si è isolato al punto tale da decidere di usare sempre e solo le maniere forti con gli altri. Quando si trova davanti due ragazzi molto malati non vuole illuderli né coccolarli e decide di essere spietatamente onesto, pensa infatti che nella vita troppo spesso diciamo bugie al prossimo…».
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