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E' quasi magia, JohnnyChi pensava che Johnny Depp avesse chiuso con i personaggi fantasy dopo Jack Sparrow è destinato a ricredersi. Con il super cattivo del mondo di Harry Potter, l’attore sta vivendo un’autentica rinascita mista a riscattoGio 28 Mar 2019 | di Alessandra De Tommasi | Interviste Esclusive
Avanza a passo spedito, ma poi si ferma un attimo e rallenta. Si guarda intorno, come volesse cercare conferme. Al Festival di Zurigo Johnny Depp sembra un’altra persona: zero capricci, nessuna spavalderia. Abbozza un sorriso timido, quando fa capolino nella stanza, e azzarda una battuta davanti ad un bricco d’acqua: “Non sarà mica vodka, vero?”. E lo scola d’un sorso prima di verificare se è riuscito a rompere il ghiaccio. Sa che girano voci di ogni tipo sul suo conto, che il pubblico gli ha remato contro di recente e che è stato scaricato dai “Pirati dei Caraibi”. Dopo il divorzio, insomma, a sentire i pettegolezzi, se la passava piuttosto male. Il verbo al passato è doveroso, perché quello che arriva in Svizzera sembra un uomo diverso. Ha lo sguardo lucido e gli trema a tratti la voce, come se sapesse di aver ricevuto dalla vita l’ennesima chance e di non volerla sprecare. Una donna ha creduto in lui, infischiandosene della bufera che lo aveva travolto. Si chiama J.K. Rowling e ha la fama di fare miracoli… e non solo in libreria.
Eccolo lì allora alle prese con una nuova trasformazione: con il ciuffo albino e la bacchetta di sambuco in mano, il suo Grindelwald sembra persino più pericoloso di Voldemort, finora cattivo per eccellenza nella saga di Harry Potter. Non è ancora dato sapere se l’attore sia immune o meno dalla contaminazione del Male di cui racconta sullo schermo, d’altronde siamo ancora al secondo dei cinque film prequel, cioè ambientati svariati decenni prima della nascita del maghetto (“Animali fantastici: i crimini di Grindelwald”, appena uscito in versione home video). Come ha detto e ridetto Lady Gaga, non serve che tutto il mondo tifi per te, basta una persona a cambiarti la vita. A giudicare dai primi risultati potrebbe essere vero, anche per l’ex capitano Jack Sparrow.
Dopo essere stato a lungo pirata, se l’aspettava di essere scelto per un altro ruolo senza tempo come il mago oscuro più potente di tutti, nel mondo di Harry Potter?
«Ricevere la notizia è stato surreale, anzi spettacolare: è piovuta quasi dal cielo, inaspettata. Subito dopo J.K. Rowling in persona mi ha dato appuntamento e ci siamo incontrati, faccia a faccia e abbiamo parlato per ore».
Grindelwald è il ritratto di quello che di peggiore si annida nell’animo umano. Ha trovato in lui un barlume di luce?
«Non posso dire che interpretarlo sia stato divertente, ma istruttivo sì. Dal suo punto di vista agisce per un bene superiore, in una sorta di visione machiavellica che è ancora attuale, se pensiamo a cosa combinano i politici oggi».
Dietro i suoi ultimi progetti c’è sempre un certo spessore, non si tratta più né solo di intrattenimento, vero? «No, ognuno di loro mi fa da faro, in qualche modo. Per esempio “Richard says goodbye” (ancora inedito in Italia - ndr) racconta di un uomo con una malattia terminale che deve decidere come spendere gli ultimi giorni sulla Terra».
Cosa le ha insegnato? «Mi ha fatto riflettere sul dono della vita. Oggi è facile distrarsi dalle cose importanti e perdersi per strada, invece dovremmo festeggiare ogni momento e ogni giorno come un regalo inatteso. Guardando a Richard, ho pensato che mi piacerebbe avere la sua ironia profonda: la morte ci aspetta, è vero, ma quanto sarebbe bello farsi prima una bella risata?».
Cosa l’ha messa di buonumore di recente? «I concerti con gli Hollywood Vampires mi hanno rimesso in sesto negli ultimi mesi. E ho ricevuto una tale energia dal pubblico da sentirmi rigenerato. L’immediatezza delle note ti regala emozioni che nessun’altra forma d’arte può eguagliare».
Neppure il cinema?
«Quando sei davanti alla macchina da presa t’immergi in un personaggio, ma poi il set finisce e passo ad altro, non mi preoccupo di quello che succede dopo. E a volte è frustrante, perché promuovo quel film dopo anni dalle riprese e di quell’esperienza, di quelle sensazioni, mi resto solo un ricordo sbiadito».
Che effetto le fa sapere che a Disneyland esistono ancora le attrazioni di “Pirati di Caraibi” ed è stato proprio lei a dar vita a Jack Sparrow? «Stento ancora a capacitarmene, ad essere onesto, soprattutto perché ho rischiato di essere licenziato quando ho proposto la mia versione del capitano, un tipo non proprio lucido e affidabile, per non dire altro. Invece sono andato fino in fondo, dando sfogo alla mia creatività e attingendo dall’esperienza quotidiana come genitore».
Essere papà l’ha aiutata? Moltissimo, ha dato un senso alla mia vita, e in quel caso anche uno spunto per trovare lati di un personaggio che potesse divertire i bambini. Per questo andare a trovare in ospedale i piccoli malati vestito da pirata dà un senso in più al mio lavoro».
È vero che lei e Tim Burton comunicate senza parole? «Una volta un elettricista sul set ci ha guardato interagire per quindici minuti a gesti, come se fosse il gioco dei mimi, e non ci ha capito nulla. Noi invece ormai ci capiamo alla perfezione. Per Tim farei qualsiasi cosa, è il mio miglior amico fin da quando l’ho incontrato per la prima volta».
Colpo di fulmine? «Ci siamo visti in caffetteria e ho capito subito che era lui. Ho visto da lontano questa figura magrolina con i capelli ricci spettinati, preso da mille idiosincrasie. Ho pensato: “Eccolo”. Ne sono uscito dopo tre ore e mezza e 15 tazze di caffè e mille racconti d’infanzia – a quanto pare da bambini abbiamo vissuto esperienze simili – intanto lui continuava a gesticolare e io sono uscito dal locale masticando un cucchiaino. Per un mese non si è fatto sentire, poi di colpo è arrivata la telefonata per “Edward mani di forbice” e mi ha mandato in tilt».
Di recente l’abbiamo vista passare dal pirata Jack al mago Grindelwald, eppure ha interpretato anche tanti personaggi realmente esistiti, come in “Black Mass”. Sente il peso di rappresentare la realtà?
«Per “Donnie Brasco” ho passato mesi immerso in quell’ambiente e frequentando club di mafiosi. Per “Blow” sono andato a trovare il mio protagonista in carcere. Sento un’enorme responsabilità nel dar vita a persone vere, voglio essere accurato e rispettoso. Per “Black Mass” ho contattato l’avvocato di James Bulger, perché volevo incontrarlo di persona: mi ha detto di no perché aveva odiato il libro da cui era tratto il film».
Che idea si è fatta? «Non credo che quando un serial killer si guarda allo specchio facendosi la barba al mattino si veda come un cattivo. Persino il più spietato tra gli uomini ha un lato gentile e amorevole e il mio compito è trovarlo per portare a galla l’umanità e creare così un ponte tra il personaggio e il pubblico».
Il ricordo più prezioso? La sorella di John Dillinger, Francis, il rapinatore di banche che ho messo in scena in “Nemico pubblico”, mi ha scritto una lettera. Certo, ha precisato che ha odiato il film, ma ha apprezzato il senso dell’umorismo che ho infuso nella rappresentazione del fratello. A detta sua era una rockstar ai tempi della Depressione, un Robin Hood dell’epoca».
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