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La cucina pop di OldaniOtto libri, una stella Michelin e ora anche il set condiviso con il tennista Federer: tutti lo vogliono, perché dove c’è Oldani c’è casaGio 28 Mar 2019 | di Nadia Afragola | Interviste Esclusive
L’allievo per eccellenza del maestro della cucina italiana, Gualtiero Marchesi. Davide Oldani è l’ideatore della Cucina Pop – alta qualità e accessibilità. Ha aperto il suo ristorante il D’O, a Cornaredo, in provincia di Milano, suo paese d’origine. Nel dicembre 2008 ha ricevuto l’Ambrogino d’Oro dal Comune di Milano, nel 2013 è stato invitato ad Harvard per raccontare la sua esperienza impreditoriale, attraverso una case history sul suo ristorante, nel 2015 è stato nominato Ambassdor Expo, scrive libri (“Le D'Onne lo sanno. La cucina, la famiglia, la vita" è l’ultimo edito da La Nave di Teseo) tiene lezioni in diverse Università, a volte veste i panni del designer e sul petto ha cucito una stella Michelin. Tutti oggi lo conoscono per via degli spot globali di Barilla, in cui fa coppia fissa con il campione di tennis, Roger Federer. In due sono capaci di trasformare un ricevimento formale e un po’ noioso, in una festa memorabile grazie alla pasta, simbolo della convivialità a tavola e ad un intrigante piatto di “spaghetti con capperi, olive e pomodoro”. Per parlare con lui, siamo stati a Cornaredo, la sua patria.
Chef, una spaghettata può salvare una festa? Federer farà parte della sua brigata?
«Magari… è nato un rapporto di grande stima sul set, ribadito dal mio amore per il tennis e il suo amore per la cucina. Approfondiremo sicuramente la nostra conoscenza a colpi di tennis e spadellate».
I segreti del suo mestiere? «Segreti? No, meglio parlare di buoni propositi. Ti devi applicare con tanta tenacia, passione e non devi mai perdere di vista l’obiettivo. Devi servire in maniera corretta i tuoi ospiti, rispettare i ragazzi della tua brigata, non perdere di vista quello che è il tuo lavoro, fare da mangiare alla gente; essere altruista, disponibile nel servire le persone, conservando un’etica e una costanza che arriva solo se sei coerente. Il nostro è un lavoro che anche se appare easy in realtà richiedere tanto sacrificio. Credo che sia uno dei mestieri più sacrificanti al mondo e proprio per questo non devi mai dimenticare da dove vieni e possibilmente devi riuscire oltre a tutto quello che abbiamo detto sin qui, anche a investire sotto il profilo umano. Il futuro in cucina è nei rapporti umani, oltre che nel cibo fine a sè stesso, che ci nutre, ma per farlo in maniera corretta richiede conoscenza».
Marketing. Lei è tra i migliori… come fa? «Non lo so… la parola marketing mi fa paura. Ero e sento ancora di essere un artigiano, ho imparato facendo. Mi hanno detto che comunico in maniera chiara tutto ciò che ruota intorno a me e quindi dite che questo è fare marketing? Chiamatelo come volete, io mi limito a disegnare i tavoli e le sedie del mio ristorante con un approccio etico alle cose. Nasce con queste premesse un nuovo progetto legato alle azioni da fare a tavola di cui vi racconterò più in là. Tornando alla sua domanda, è una questione di sacrifici che si scelgono di fare, in nome di un obiettivo da raggiungere, che riesci a centrare solo se sei bravo a costruirti un team. Il nostro non è un lavoro da solisti. È questo che la gente sente in un ristornate in cui le cose funzionano come dovrebbero».
Fare squadra: quanto conta in cucina, in un ristorante, in un paese come l’Italia che non ha mai saputo far squadra?
«Io arrivo dalla prima Repubblica della cucina, da un sistema di cuochi non associati che negli ultimi 15 anni, grazie anche a un congresso come Identità Golose, agli Ambasciatori del Gusto e a innumerevoli altre iniziative, che hanno coinvolto tutti i grandi cuochi, sono riusciti a dare una identità ben precisa a quello che comunemente viene chiamato “Sistema Italia”. Adesso esiste una certa unità nei cuochi, che non c’era quando io ho iniziato a fare questo mestiere».
Che consiglio darebbe ad un giovane? «Affidatevi ai grandi ristoranti che ci sono in Italia, capaci di indirizzarvi verso la giusta via e alla vostra famiglia, unica fonte di sostegno non solo economica, ma soprattutto morale, necessaria per riuscire a fare un lavoro duro come il cuoco. È partendo da queste premesse che noi scegliamo il nostro personale, deve essere pronto a fare un lavoro artigianale, non certo uno show televisivo».
Contaminazioni: cosa sono? «L’espressione di uno stato d’animo, il ricordo della nonna che cucina. A volte semplici associazioni mentali: pensi al pesce crudo e in testa hai l’Oriente, se hai a che fare con dell’agrodolce la tua mente vola in Cina e se ti servo una salsa è in Francia che ti ritrovi».
Un tempo erano tutti allenatori di calcio, oggi tutti critici gastronomici. Chi è un critico per lei?
«Il mio cliente e poi c’è tutto il mondo social; a differenza però di una partita di calcio, il cibo lo mangiamo tutti e a tutti è permesso esprime un giudizio».
Lei gioca spesso con i piatti. Vero?
«Sì. Quando mangiate, fate l’azione di portare il piatto vicino alla bocca, avvicinate il naso, sentite gli odori. Tre anni fa ho inserito in carta un piatto, progettato in una forma stretta e allungata, che per essere consumato necessitava di essere “leccato”. Un’azione che ci riporta all’infanzia e al gustare il cibo fino in fondo, ho preso spunto dalla mia bambina, poi lo hanno fatto anche altri colleghi. Certi gesti andrebbero fatti sempre, come fare la scarpetta, perché rendono la tavola e i nostri ristoranti, quelli gastronomici, gourmet, stellati, chiamateli come volete, “normali”!».
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