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Clint Eastwood: come nasce una leggendaMar 30 Apr 2019 | di Alessandra De Tommasi | Interviste Esclusive
Una presenza che riempie una stanza, un’espressione che fa tremare i polsi, una carriera che fa impallidire Hollywood. Clint Eastwood è tutto questo e molto altro ancora. Dotato di una sorprendente autoironia, è in grado di calamitare l’attenzione di tutti, eclissando le nuove star dal broncetto facile e da milioni di follower. Non ha bisogno di raccontarsi, eppure lo fa con grazia ed eleganza, mentre, dopo aver spento 88 candeline, ancora guarda più al futuro che al passato, moltiplicando progetti e ambizioni, all’indomani de “Il corriere”, un altro profondo spaccato di umanità.
Nel clima attuale, sempre più votato al politicamente corretto, teme che alcuni suoi film siano considerati eccessivamente violenti? Mai stato un eroe su un cavallo bianco, vero?
«Il cavallo bianco è un po’ prevedibile, non trovi? Ricordo ancora quando ho telefonato a Morgan Freeman per la parte: ha accettato subito perché amava il mio lavoro, mentre Richard Harris si trovava alle Bahamas e ha scambiato la chiamata per uno scherzo telefonico. Quando ha capito che ero davvero io, allora anche lui mi ha detto di sì».
Se potesse dedicare la sua carriera a qualcuno, chi sceglierebbe? «Il mio più grande maestro, Sergio Leone, un regista che ha sempre avuto un punto di vista diverso nel guardare le cose. Mi sento onorato di usare questo termine con lui, “maestro”, e di aver imparato così tanto da lui. Ma sai una cosa? Tutte le persone che incontri lasciano un segno e ti offrono l’opportunità di crescere, se ti permetti di farlo».
Anche lei era un fan del western, da piccolo? «Amavo queste storie, come tutti i bambini che sono affascinati dall’idea di cavalcare e vivere incredibili avventure. Amavo Gary Cooper e John Wayne e il cinema mi permetteva di evadere dalla realtà, viaggiare in luoghi sconosciuti e in epoche diverse dalla mia. Mai perdere la voglia di volare alto con la fantasia, è una risorsa preziosa».
Ricorda la prima esperienza sul palco? «Pessima. Mi hanno obbligato al liceo, durante un corso di teatro, e mi hanno costretto a recitare la parte del protagonista, un tipo un po’ tonto per cui pensavano io fossi perfetto. Forse avevano ragione: sotto i riflettori ero pessimo, letteralmente pietrificato in scena. Poi mi sono detto che ero talmente tremendo che non sarebbe potuta andare peggio, così l’ho presa a ridere e ha funzionato. Finito lo spettacolo li ho minacciati: “Non chiedetemi di farlo mai più”».
Ci è ricascato. «Solo perché all’università le lezioni di recitazione erano frequentate da ragazza carine. Non suona professionale detto così, ma alla fine con le improvvisazioni ci ho preso gusto e l’ultimo giorno in classe mi hanno coinvolto in un lavoro. Mi pagavano 75 dollari a settimana e io ero terrorizzato, certo, non erano tanti, ma mi ci potevo comprare delle cose e ho continuato a lavorare al programma per un anno e mezzo finché non lo hanno chiuso. E poi ho continuato con particine, che mi hanno permesso di essere retribuito dignitosamente per altri sei anni».
La svolta? «Il mio agente mi ha proposto di andare in Italia a girare un western, ma non ne avevo alcune intenzione, volevo godermi alcuni giorni liberi per andare a pesca, ma poi per dargliela vinta ho letto il copione, mi sembrava uno schifo, credevo che nessuno lo avrebbe visto, un filmetto a basso budget, 200mila dollari appena, nel frattempo Sergio Leone ha messo insieme i soldi per fare il suo film e mi ci sono fiondato, per imparare alla scuola. Non pensavo davvero che quel genere funzionasse e invece mi ha svoltato la vita».
Un po’ come la regia. «Mi è venuta l’idea per caso, durante un viaggio di ritorno dall’Inghilterra e – non so come – qualcuno mi ha dato fiducia per farlo. E da allora ho sempre tenuto in conto il principio “buona la prima”, senza accanirmi con prove e forzature. Mettermi dietro la macchina da presa è stato un regalo, mi permette di entrare in connessione con le emozioni di tutti, anche se a volte perdo un po’ la pazienza. È un lavoro basato sull’istinto e sulla fiducia. Un film, d’altronde, è una forma d’arte emotiva in cui contano i dettagli, ma devi anche portare in scena quello che ti fa star bene, senza mai perdere il senso dell’umorismo di cui oggi si sente tanto la mancanza».
Non ha voglia di riposarsi? «Amo il golf, ma amo ancora di più non aver tempo per praticarlo, essere sempre in movimento, mandare dei messaggi attraverso il mio lavoro».
Un consiglio che ha dato ai suoi figli attori? «Ricordo loro di prendere il mestiere seriamente senza lamentarsi di lavorare troppo. Tempra il carattere, fa bene, ma per poi aggiungere: “Se non ami davvero questo mondo, per favore fai altro”. Secondo te mi danno ascolto? No, mai».
Qual è la sua filosofia di vita? «Se una cosa è destinata ad accadere allora accade e se non succede volta pagina, senza rimpianti, prima o poi ci riuscirai. La fortuna è importante, ma va aiutata, senza la zavorra della paura di fallire. Io di errori ne ho fatti tanti, ma non ho mai permesso che mi definissero. Ogni volta che sono caduto mi sono sempre rialzato».
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