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Qui si vogliono formare le persone

Gabriella Pittau, dall’Italia alla Francia per diventare dirigente medico

Gio 20 Giu 2019 | di Emanuele Tirelli | Attualità
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Praticien hospitalier all’ospedale Paul Brousse di Villejuif, a sud di Parigi. In Italia è l’equivalente di dirigente medico. Gabriella Pittau si occupa di chirurgia del fegato e del pancreas, di trapianti. Sarda, di Arbatax, a diciotto anni si è trasferita a Roma per laurearsi in medicina e specializzarsi in chirurgia generale, e dopo un anno a Lione durante l’ultima fase dei suoi studi, è andata definitivamente in Francia. «In Italia ci sono troppi medici - mi dice -. È difficile formare e dare spazio a tutti e le donne non sono sicuramente avvantaggiate. Anzi».

Perché?
«I primari non lasciano sempre operare i giovani chirurghi. E alle donne fanno credere che sia troppo difficile, che non potranno mai riuscire ad avere una famiglia con questo mestiere; che si tratti di qualcosa di troppo impegnativo da far conciliare con un marito, una casa, dei figli. Molte ci credono e ci rinunciano. Io non c’ho creduto e ce l’ho fatta, ma c’è una misoginia diffusa e la difficoltà per le donne è ovunque. In generale vengono preferiti gli uomini. Le cose stanno cambiando, ma per ora non conosco nessun direttore di dipartimento universitario di chirurgia che sia donna».

E in Francia?
«La differenza principale è che qui hanno davvero interesse nel formare le persone, perché hanno bisogno di chirurghi per operare. Partiamo quindi da una questione di numeri, ma poi c’è tutto il resto che influisce penalizzando le donne. Ho pensato a rientrare in Italia, ma non lo farò mai: tutti i miei colleghi che l’hanno fatto sono stati messi da parte, rispetto a come svolgevano il loro lavoro altrove, e l’hanno rimpianto». 

Sei un chirurgo ad alti livelli e sei anche una madre.
«Ho l’obiettivo di perfezionarmi ancora di più nella chirurgia mini-invasiva del fegato e del pancreas e di poter fare prelievi di fegato nei donatori viventi. È difficile conciliare tutto questo con l’essere madre. Mio figlio trascorre molto tempo all’asilo e con un po’ di sacrifici si riesce a far quadrare tutto». 

Ricordi la tua prima volta con un trapianto?
«Ero specializzanda a Lione e non avevo mai pensato che i trapianti avrebbero fatto parte della mia vita, che sarebbero stati il mio lavoro. Quella volta, la prima volta, è stato un intervento di cinque ore, al fegato. Non ho operato, ma ho solo assistito. Ed è qualcosa che, dopo tanti anni e moltissime ore in sala operatoria, mi emoziona ancora. L’organo viene reimpiantato nel ricevente e recupera il suo colore. È sempre fantastico».

Credi che le cose cambieranno per le donne?
«Forse. Me lo auguro. Per ora, a voler parlare per grandi numeri, a occuparsi dei figli sono ancora più le madri che i padri, nonostante siano figli di entrambi e rappresentino comunque un’unica famiglia. Non è il mio caso, però anche questa è una dinamica che contribuisce a rendere i capi più reticenti nell’assumere le donne. Ed è come se dovessimo dimostrare quanto valiamo molto più di quanto non sia richiesto ai nostri competitor maschili. È come se avessimo sempre una colpa da espiare».

Quale?
«Sembra che la colpa sia proprio quella di essere donne. Dobbiamo dimostrare di valere almeno quanto gli uomini, come se per definizione fossimo inferiori. Al terzo anno di università, quando ho iniziato a frequentare un reparto di chirurgia, mi è stato detto che non era un mestiere da donna e ho cercato la mia vocazione altrove, ma poi sono tornata lì. Anche quando sono entrata in specializzazione, hanno cercato di avvicinarmi subito ad ecografie ed endoscopie, tenendomi lontana dalla chirurgia vera e propria. Hanno dovuto rinunciare, ma affinché accadesse non ho mai potuto permettermi di dire qualche volta che ero stanca, come facevano gli altri. Ai miei colleghi maschi era consentito, per noi donne era meglio non farlo. Spero che le nuove generazioni non si sentano obbligate a mostrare che sono più forti degli uomini. Non ne abbiamo bisogno».                                            

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