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Alain Delon: divo senza tempoCon la Palma d’onore al Festival di Cannes Alain Delon saluta il suo pubblico, forse per sempre. Anche se le vere leggende del cinema non invecchiano né vanno in pensioneGio 25 Lug 2019 | di Alessandra De Tommasi | Interviste Esclusive
Fianco a fianco con la figlia Anouchka, anche lei attrice, Alain Delon sfila sul tappeto rosso più prestigioso del cinema mondiale, al Festival di Cannes, che gli conferisce il riconoscimento maggiore, la Palma d’onore. Guardarsi indietro, a pochi passi dal ritiro ufficiale, è doloroso: «Ora può davvero finire tutto», commenta la leggenda francese tra le lacrime. Eppure in quegli occhi color del cielo - che per decenni l’hanno incoronato tra i sex symbol mondiali – balena ancora un guizzo di vitalità, a dispetto della depressione e dei pensieri suicida che l’hanno accompagnato negli ultimi tempi. Il divo de “Il Gattopardo” ostenta nonchalance e si spertica in ringraziamenti verso il genere femminile, ma conosce la verità e non ne fa mistero: «Ho talento - dice - e pensare che non ho frequentato alcuna scuola. Glissa, invece, sui paragoni con il presunto eterno rivale Jean-Paul Belmondo, reduce dal metodo delle scuole di recitazioni. Rimpiange i compagni di viaggio sul set e nella vita che ha perduto, eppure prova ad andare avanti, a non lasciarsi risucchiare dalla malinconia. Ancora una volta.
Com’è passato da soldato ad attore? È iniziato tutto per caso?
«Esatto, come tutte le cose della mia vita. Mi sono arruolato nei marine perché mi annoiavo e mi sono ritrovato in Cina. Alle volte penso che senza di lei sarei morto: lei mi ha spinto ad entrare nel mondo dello spettacolo, un ambiente che non mi metteva per niente a mio agio».
Come ha trovato il suo posto nello showbusiness? «Yves Allégret, il primo regista a dirigermi, sul set di “Godot” ha voluto parlarmi nel camerino alla vigilia della prima scena. Mi ha dato il consiglio più importante della carriera: «Non recitare, guarda, parla e ascolta come fai con me, sii te stesso e vivilo. E l’ho fatto, senza pensarci due volte, a volte destabilizzando le colleghe con cambi d’umore repentini, ma d’altronde non avevo un’istruzione come Belmondo, non ero uno studente di cinema, potevo solo buttarmi con naturalezza».
Ha trovato la sua strada? «Ho iniziato a vivere di fronte alla macchina da presa, nel mio elemento, e mi sono reso conto di essere nato per questo».
Colpi di testa? «Mi facevo valere. Ad esempio per “Delitto in pieno sole” sapevo di dover essere il protagonista, invece mi avevano scritturato come il comprimario tra migliaia di provini. All’epoca non ero nessuno, ma mi sono impuntato, minacciando di andarmene. E così ho fatto finché il produttore non mi ha richiamato dicendo: «Il ragazzino ha ragione». Quella spavalderia è ancora una volta merito delle donne che mi hanno sempre amato e senza le quali a quest’ora avrei fatto una brutta fine. E così mi sono lanciato, con spontaneità, senza recitare».
Perché continua a ripetere che le donne sono la sua ancora di salvezza? «Ho lasciato casa mia a 17 anni e avevo bisogno di una rete di sostegno, che loro mi hanno generosamente offerto. Diciamoci la verità: io sono tutto e sono niente, divento quello che la gente vuole che io sia».
Per questo ha rifiutato la Palma d’onore la prima volta che gliel’hanno offerta? «Certo, sono i registi con cui ho lavorato, da Melville a Visconti, a meritarla, ma sono morti quindi l’accetto ora per tributare loro l’omaggio che meritano».
Perché si è dato alla produzione? «Per essere il capo di me stesso e avere l’ultima parola sul processo creativo. Non ero bravo a fare lo sceneggiatore e quello era l’unico ruolo che me l’avrebbe permesso».
Le è dispiaciuto essere snobbato dalla Nouvelle Vague francese? «Mi hanno bandito dalla cerchia intellettuale, ma non me n’è mai fregato niente, non avevo bisogno di loro e nel frattempo me ne sono andato un paio d’anni a Hollywood, per poi tornare in patria a causa della nostalgia».
È diventato più malleabile con il tempo? «Assolutamente no, ricordo ancora quando mi sono imposto per far scritturare Romy Schneider, all’epoca una sconosciuta. Ho detto: «O la prendete o me ne vado». Hanno dovuto accettare ed è stato un successo, ora però non riesco più a guardare i nostri film insieme per questioni private (la morte a soli 43 anni dell’attrice - ndr).
La sua maggiore virtù? «Sono uno che ha coraggio e non si tira indietro, a qualunque costo, anche se a volte l’ho pagata».
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