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Chernobyl 34 anni dopoIl 26 aprile 1986 raccontato attraverso gli occhi degli eroi di allora. E dei bambini che in Italia trovarono una casaLun 30 Mar 2020 | di Domenico Zaccaria | Attualità
Quello di Chernobyl non è solo il più grave disastro nucleare dell’umanità. è anche una storia di segreti, errori ed eroi. E di tanti fili che uniscono il nostro Paese a quella tragedia: legami affettivi, straordinari racconti di accoglienza e di aiuto, in un’Italia solidale fatta di cuori e di case aperte. Racconta tutto questo la giornalista Stefania Divertito nel suo ultimo libro “Chernobyl Italia” (edito da Sperling & Kupfer), che dimostra come tutto sia cambiato dal 26 aprile del 1986, quando l’esplosione nella centrale dell’ex Unione Sovietica scoperchiò il reattore numero quattro.
Quale delle vicende che racconti ti ha colpita maggiormente?
«E' difficile scegliere ma mi viene subito in mente quella del medico Robert Gale che, appena saputo del disastro, decollò dagli Stati Uniti per andare a curare i malati sul posto. Trascorse diversi mesi all’Ospedale numero 6, dove erano ricoverati tutti gli uomini colpiti dalle radiazioni: con il suo team riuscì a salvare l’86% delle vite e a monitorare nel tempo i casi di cancro legati al latte contaminato».
Incredibile, dato che il mondo era nel pieno della Guerra Fredda. «Già. In pratica nel maggio del 1986, mentre l’URSS iniziava ad ammettere la grave contaminazione in atto, il governo comunista dette carta bianca a un medico statunitense».
Hai incontrato tanti “figli di Chernobyl” che da noi trovarono una seconda casa. Cosa accadde in Italia?
«Scattò una vera e propria gara di solidarietà: oltre 500.000 bambini, ovvero più della metà di quelli ospitati in Occidente, furono accolti nel nostro Paese. è una situazione difficile da immaginare oggi, considerando il clima che si respira. Ma credo che quell’apertura di cuore faccia ancora parte del nostro DNA. È la narrazione che confezioniamo del Paese a sottolineare solo alcuni aspetti, il ché pian piano convince la maggioranza che quella visione sia univoca e condivisa».
Quella di Ekaterina Zhukova è una delle storie più toccanti.
«Ekaterina è un’ex bambina di Chernobyl che fu ospitata da una famiglia di Lucca, dove veniva a curarsi ogni estate. Oggi è un’affermata ricercatrice europea, lavora all’università di Lundt e si occupa proprio di capire gli effetti dei traumi come quelli subiti da lei e dalla sua famiglia sulle generazioni future: dedicarsi al prossimo a partire proprio dalla sua esperienza è una bellissima apertura di cuore. Inoltre è stato davvero emozionante notare come, a distanza di tanti anni, porti dentro di sé l’anima italiana e parli ancora a perfezione la nostra lingua».
Quali sono i numeri del disastro nucleare?
«Ancora oggi, a 34 anni di distanza, è difficile fare una stima esatta dei costi umani dell’esplosione. Nel rapporto del Chernobyl Forum molte vittime non furono considerate epidemiologicamente verificate, e attestava tra le 65 e le 4mila le morti presunte. Il rapporto di Greenpeace, invece, parla di decessi compresi tra 100 mila e 270 mila. C’è poi da considerare chi ha mangiato cibo infetto, perché solo da pochi anni sappiamo che gli animali da macellazione contaminati sono stati comunque usati per insaccati. Questo significa che migliaia persone, magari anche in zone distanti da Chernobyl, hanno mangiato carne radioattiva».
Per chi non l’ha vissuta direttamente, quella di Chernobyl sembra una storia di qualche era geologica fa.
«Invece non è una storia del passato, è un racconto del presente che deve indurci a costruire un futuro diverso. Chernobyl parla delle nostre scelte: energetiche, di accoglienza, di abnegazione. Parla del sacrificio di 600mila uomini che hanno dato la vita per poter salvare il Paese. Parla della nostra straordinaria capacità di accoglienza. Non possiamo affidarci al caso o sfidare la natura, come accadde quella notte: quante volte lo stiamo facendo oggi? Penso al nostro modo di vivere il Pianeta, incuranti degli effetti delle nostre decisioni e dei nostri consumi. Ci leggo tanto, in quel 26 aprile di 34 anni fa. Tanto che può esserci ancora di insegnamento».
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