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La rivoluzione del cinema da casa

Torneremo in sala a vedere film? Chi lo sa? Intanto migliora la qualità dell'offerta on line

Lun 27 Apr 2020 | di Boris Sollazzo | TV/Cinema
Foto di 5


Hogar

Genere: thriller
Regia: David e Àlex Pastor
PIATTAFORMA: NETFLIX
VOTO: 3.5/5

I fratelli Pastor sono due talenti veri, cattivi (nel senso buono del termine, passate l'ossimoro), scorretti. Proprio loro che hanno dedicato la loro ancora breve carriera a raccontare virus e pandemie con anticipo (una dozzina d'anni fa) e momenti profetici, ora sembrano tornare a una dimensione più intima. Ossessiva. E ci hanno preso anche questa volta. Un po' perché “Hogar” (in catalano vuol dire "casa" nel senso più profondo dell'etimologia della parola) ci racconta, in fondo, del rapporto viscerale che abbiamo con le nostre quattro mura e che ora stiamo sviluppando ancora di più, causa Covid 19, un po' perché in un'abitazione posseduta (da un altro, legalmente, non da uno spirito) puoi raccontare la nostra società. Quella in cui il protagonista, un 50enne di talento, pubblicitario, licenziato e non ricollocabile nel mercato del lavoro, decide di vendicarsi "socialmente" contro chi ha comprato il suo attico, che non poteva più permettersi. Javier Gutierrez, uno dei migliori attori europei, è bravissimo nell'incarnare la lucida follia di quest'uomo sconfitto ma non vinto, di chi crede di aver diritto di riprendersi tutto quello che è suo - e che invece continua a perdere ciò che è più importante - e che tutto valga, perché ciò accada. I Pastor per tre quarti del film reggono botta, tengono alto il ritmo sia pur con qualche discontinuità, poi sul finale calano un po' troppo. Ma il loro thriller sociopolitico ci dice molto di noi e del nostro mondo. In cui il virus più pericoloso, probabilmente, non è quello che viene dai pipistrelli, ma da noi.

 


Messi

Genere: documentario
Regia: Alex de la Iglesia
PIATTAFORMA: Amazon Prime
VOTO: 3.5/5

Lionel il grande. Ma non abbastanza. E la colpa è sua, diviso tra due ossessioni: la perfezione, il voler essere il migliore, e Diego Armando Maradona, il modello che voleva superare. Lui stesso si è messo in una condizione di sudditanza nei confronti di un'icona che lo ha stigmatizzato e blandito, oscurato e allenato e, nel 2010, ha tentato di poter vincere insieme un mondiale, il sogno di entrambi. Ecco perché nel bel documentario di Alex De La Iglesia (fuori dal suo, con uno stile asciutto che non gli riconosciamo, del suo cinema c'è giusto l'ossessione per la tavola) sembra strana l'assenza quasi totale del Diez, del modello, della dannazione del ragazzo di Rosario. Diego proletario, istintivo, discontinuo, Lionel borghese, calcolatore, una macchina di gol e di grandi stagioni. Diego che vince da solo mondiali e scudetti, Lionel che senza Iniesta e Xavi si sente perso. Nel film lo dice bene l'ex ct della Nazionale campione del mondo del 1978, Cesar Luis Menotti, uno che ha escluso dai convocati il Pibe e che non è sempre stato tenero con la Pulce. "Messi è l’argentino che tutti vorremmo essere, Maradona è l’argentino che tutti siamo". Il regista decide di raccontare Messi nelle piccole fragilità (l'amore per la nonna, il dolore di un'adolescenza da robot, le piccole alienazioni in partita) e nella grandezza celebrata dai compagni (Piqué, Iniesta) o dai rivali che qui hanno messo mano anche in sceneggiatura, Jorge Valdano. Calciatore che giocò, vinse e non amò mai Diego, dirigente che si trovò a Madrid mentre esplodeva la stella Messi. E intellettuale raffinato. Curioso oggetto il doc “Messi”, da vedere.

 


Ultras

Genere: melodramma
Regia: Francesco Lettieri
PIATTAFORMA: Netflix
VOTO: 3.5/5

Francesco Lettieri è l'anima dell'indie italiano: quell'it-pop che va da Paradiso a Calcutta passando per Coez e Liberato ha trovato nelle sue immagini, nei suoi videoclip un pantheon e un immaginario che altrimenti non ci sarebbero stati. Ha sancito il loro successo, più ancora, forse, delle loro canzoni. Ora si mette in "proprio", chiede a Liberato, che dell'iconografia ultras ha più che abusato, di fare la colonna sonora e esordisce con Netflix alla regia di un lungometraggio. Lo fa con una prova tra le più difficili, raccontare un mondo che è ostile alla rappresentazione, all'inclusione nella società. Lo fa con un melodramma sentimentale efficace - che bravi Aniello Arena e Antonia Truppo in questo amore animale, tenero e ruvido, imperfetto e felice - che pone enfasi sui sentimenti che scorrono negli stadi. Da un capo ultras in regime di Daspo che scopre la vita fuori dagli spalti ai suoi compagni di tifo che scoprono di essere una comunità fin troppo emotiva (il rapporto tra i due leader è quasi da innamorati, il conflitto generazionale fin troppo familistico), Ultras è il flusso di (in)coscienza di una realtà che cerca un suo posto in un mondo che "non li vuole più", come canta un coro. Adepti di una religione in declino - non a caso il film inizia e finisce fuori da una chiesa -, con le loro icone (Ciro Esposito, evocato e forse inutile in questo contesto) e i loro riti. Ne esce fuori il primo ritratto cinematografico interessante degli Ultras, a 30 anni dal tentativo di Ricky Tognazzi con “Ultrà”.

 


Tyler Rake

Genere: action
Regia: Sam Hargrave
PIATTAFORMA: Netflix
VOTO: 2.5/5

Di questi tempi un action ti aiuta a non pensare, con quegli (anti)eroi capaci di acrobatiche imprese, con mercenari che ti fanno sembrare etico persino aiutare un boss. Chris Hemsworth si sporca un po' gli splendidi lineamenti e si getta a capofitto in una storia già stravista, ma efficace, un thriller senza esclusione di colpi e con pochissimi passaggi a vuoto, senza particolari guizzi e originalità, ma con la capacità di tenerti attaccato alla poltrona. Basta in giornate in cui la realtà è più spaventosa di qualsiasi scenario di fantasia, basta perché in fondo è rassicurante trovare una sceneggiatura che mette buoni e cattivi (anzi cattivi e meno cattivi) nelle giuste caselle e in cui anche la morte sembra arrivare per giusta causa. A livello cinematografico il tutto gode di una regia diligente ed efficace, di una sceneggiatura lineare e di un ritmo che sancisce una missione sempre più impossibile e una svolta nella vita dei due protagonisti. Tutto come da copione.

 


Cobra non è

Genere: commedia
Regia: Mauro Russo
PIATTAFORMA: Amazon Prime
VOTO: 2.5/5

L'arrivo sul mercato cinematografico dei grandi player dello streaming on line ha portato anche molti registi e produttori a rischiare. Così anche un lavoro come “Cobra non è”, con tutte le sue falle, diventa un'occasione preziosa. Perché un tempo la storia di un rapper e del suo manager e di un vecchio amico del secondo divenuto criminale, sarebbe stata troppo marginale e dura per trovare un'uscita in sala o simili. Ora invece si può sperimentare, mettere rap, crime e pulp in un unico film e osservare Mauro Russo (un altro regista di videoclip, interessante questa nouvelle vague a cavallo di cinema e musica, ricorda i "pubblicitari" degli anni '90) destreggiarsi in generi che da tempo avevamo lasciato in soffitta in Italia, se non per qualche coraggiosa eccezione (si pensi ai lavori belli e sfortunati di Davide Marengo). I cameo musicali sono di livello, il cast non ha nomi altisonanti, ma professionisti di qualità e un volto femminile, Denise Capezza, che tra “Gomorra” e “Baby” ci si è piantata nel cervello per quanto è brava.

 


I MAGNIFICI 7 (ONLINE)

Hogar: segnatevi tre nomi: David, Alex e Javier. I fratelli Pastor e Gutierrez sono tra i migliori registi e attori che la Spagna ci regala. Il loro film dipinge il nostro mondo malato troppo bene.

Tornare a vincere: Ben Affleck è migliore come regista che come interprete. Ma se gli dai un personaggio quadrato e positivo, sa stupirti. Come questo allenatore di basket in cerca di riscatto.

Messi: Lionel cerca, almeno al cinema, di uscire dal cono d'ombra del suo idolo e condanna Diego Armando Maradona. Alex De La Iglesia si mette al suo servizio. Ci riescono, ma solo a metà.

Ultras: Francesco Lettieri aveva dimostrato tutto il suo talento già nei videoclip. Ora esordisce nel lungometraggio con un'opera rischiosa e la porta a casa alla grande. Sta nascendo una stella.

Tyler Rake: di questi titoli ne vediamo a bizzeffe ogni anno. Action puri che portano in sala (o davanti al monitor, in questo caso) milioni di persone. Niente di nuovo ed è una buona notizia.

Cobra non è: si accusa il cinema italiano di rischiare poco. Qui lo si fa con un cast di qualità, ma non di stelle, una musica poco trattata sul grande schermo, un crime pulp. Sei di incoraggiamento.

Un figlio di nome Erasmus: il ritorno in Portogallo di splendidi quarantenni in cerca di un'eredità di un Erasmus passato sa un po' troppo di Immaturi. Funziona, sì, ma a fatica. Primo film italiano destinato alla sala che abbia deciso di uscire direct to video, quindi a suo modo storico.
 

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