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Senza lavoro nessuna dignità“Naples calling” è il nuovo disco degli A67. Daniele Sanzone, voce del gruppo, si racconta, con amore, voglia di riscatto per la sua città e un po’ di follia...Lun 27 Apr 2020 | di Angela Iantosca | Interviste Esclusive
Daniele è Napoli con tutte le sue contraddizioni. È sangue e passione. È ‘follia’. E poi musica, amore viscerale, famiglia e dignità. È voce di quella Napoli che non si arrende e di una Napoli nuova, quella stanca dell’eterno ripiegamento su se stessa, che assolve e si autoassolve da ciò che accade, come se fosse destino ineluttabile di questa città la fatica. Ha scritto, rappato, denunciato e lo continua a fare da uno dei luoghi più emblematici di quella ferita che attraversa la città: Scampia. Anche se di frequente proprio quelle Vele si fanno rappresentazione scenica e stigma che condanna un luogo a identificarsi con quei simboli che troppo spesso tradiscono e falsano la sua vera natura. Con il suo gruppo di cui è leader gli A67, Daniele Sanzone ha pubblicato un nuovo disco, “Naples calling”, con copertina rossa e un bel paio di corna in bella vista.
Come è diverso dai precedenti vostri lavori? “Napoli chiama, ma nessuno risponde. Napoli chiama, ma nessuno sente” canti in “Naples Calling”: è ancora così? «È un richiamo a se stessa! Un richiamo a reagire. Basta alibi, basta autoassoluzioni. Vediamo sempre questo rapporto complesso tra il Sud e i suoi abitanti, un rapporto che si esaspera in una città come Napoli che diventa quasi il simbolo archetipo di questo conflitto. In cui l’amore viscerale per la propria terra è odio, perché la città non è all’altezza della propria bellezza. Potrebbe essere uno dei posti più belli al mondo. Ma purtroppo le mafie, ma anche noi, rendiamo difficile fare in modo che ciò accada. Ma è il delegare agli altri la propria responsabilità il vero problema! È ora di essere parte integrante del cambiamento che vogliamo. Basta lamentarsi, basta delegare e basta dire che le cose andranno sempre così!».
In “Brava gente” dici “Non c’è dottor House che ci può salvare…”, quasi sembri parlare del virus. Come ha risposto Napoli all’emergenza? «Io credo che, al di là delle cavolate che si sentono, Napoli ha risposto molto bene. Mi ha colpito che hanno fotografato il mercato della Pignasecca popolato di persone: è stata una stupidata. Quello è il posto in cui la gente va a comprare per risparmiare. Diversamente da altre città europee che si sono omologate, Napoli resiste alla moderninizzazione. Chi va al mercato non è gente che va contro le regole. È gente che fa spesa dove conviene e dove trova. In questo senso è stata una città rispettosa... Ma c’è una immagine che mi va di condividere e sicuramente iconica in questo momento: qualche giorno fa, mentre ero a casa come tutti in questo periodo, sento “C’era una volta in America” di Morricone che entra dalla finestra. Mi affaccio e c’era questa atmosfera stranissima: musica, silenzio e gli spacciatori che vendevano la roba con le mascherine. Lo spaccio è una di quelle attività che non si è interrotta. Perché la ruota non si ferma. Però almeno mettono le mascherine!».
La follia può essere una risposta? «Per me la follia è sempre una buona risposta. Ovviamente la sana follia, non quella che è una sofferenza immane. Intendo per follia andare oltre se stessi, oltre la propria morale, oltre il conosciuto, quello che siamo stati, cercando di fare ogni giorno qualcosa di diverso».
Tu non sei andato via da Napoli, ma sei rimasto. Perché? «Io l’ho fatto per una serie di motivi. Tra questi anche il legame viscerale con la mia terra. Quando vivevo a Roma, venivo comunque 10 giorni al mese a Napoli: amo partire, ma amo soprattutto ritornare. Ovviamente non nascondo che è difficilissimo stare qui, prima di tutto per la mancanza di lavoro, senza contare questo momento durante il quale la mia categoria è stata completamente distrutta. Ma Napoli, al di là del lavoro, ti offre la bellezza che ti dà la forza di andare avanti e una qualità della vita, intesa nel senso di campare con pochi soldi, superiore alle altre città, oltre a regalare un orizzonte che ti mette di buon umore, relazioni che fuori impieghi più tempo a costruire. Alla fine tra l’avere un lavoro d’ufficio a Milano o a Torino e vivere in questo contesto, anche facendo i salti mortali, meglio stare qui…».
Cosa ha portato l’abbattimento della Vela? «È servito da un punto di vista simbolico, perché era simbolo di degrado. Ma solo il tempo dirà se qualcosa è cambiato. Per chi ci ha vissuto dentro, vederla abbattere è stata una vittoria nella misura in cui è il culmine di una lunghissima battaglia che dura da 30 anni. Spero che questo abbattimento possa essere l’inizio di una riqualificazione che fino ad ora è stata solo a chiacchiere. Intendo lavoro, sviluppo… ne parleremo quando ci sarà un’alternativa reale allo spaccio e alla criminalità che è il lavoro dignitoso».
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