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Io, candidato al NobelNicolň Govoni, 27 anni e quell’amore per i bambini in difficoltŕ di Grecia, Turchia e KenyaLun 27 Apr 2020 | di Nadia Afragola | Interviste Esclusive
Nicolò Govoni è l’immagine del riscatto. È un ragazzo, di appena 27 anni. Un ragazzo che rischiava di perdersi e che è partito per ritrovarsi. Oppresso dalla società occidentale, decide di partire per tre mesi come volontario di un piccolo orfanotrofio. Qui riscopre la vita. Costruisce un dormitorio, salva l’orfanotrofio dalla chiusura e manda tutti i bimbi a scuola e sei dei più grandi all’università. Nel frattempo, si laurea in giornalismo e decide di dedicare la sua vita all’insegnamento. Oggi Nicolò è presidente di Still I Rise, impegnata nell'educazione a bambini e adolescenti profughi sull’isola di Samos in Grecia e nella prossima apertura della prima Scuola Internazionale per minori rifugiati in Turchia. Recentemente la sua candidatura per il Nobel per la Pace è stata proposta da Sara Conti, consigliere del partito Repubblica Futura e membro del Consiglio Grande e Generale della Repubblica di San Marino. Noi lo abbiamo raggiunto telefonicamente in Turchia.
Come ti definiresti? C’è stato un momento o un viaggio che le ha in qualche modo cambiato la vita?
«Avevo 20 anni ed ho fatto il mio primo viaggio in India. Non lo feci per insegnare nulla a nessuno, attitudine che ho scoperto più tardi. Ero in crisi esistenziale a causa della fine di un amore. Volevo fare qualcosa di utile e così feci la mia prima esperienza in un orfanotrofio. Fu una folgorazione, una presa di coscienza, tanto che decisi di stabilire lì la mia vita. Ho studiato giornalismo in India e sono rimasto 4 anni, periodo in cui ho capito i meccanismi dietro le ONG».
Perché ha scelto di dedicarsi ai bambini? «Lavorare con i bambini è la massima espressione della speranza, è lì che puoi agire per cambiare una vita, è con loro che puoi fare la differenza e guardare davvero al domani. Lavorare con i bambini vuol dire dargli la possibilità di cambiare la loro vita, di educarli, di lasciare un’impronta fortissima sul loro futuro».
È candidato al Nobel per la pace. Una simile responsabilità a 27 anni come si sostiene? «All’inizio non riuscivo a crederci. Poi ho capito come stavano davvero le cose. Non vincerò mai il Nobel, ci sono persone molto più meritevoli di me, ma la candidatura non va vista come un “bravo, ce l’hai fatta”, ma come un “bravo, continua così”. Facciamo cose buone, qualcuno ce lo riconosce e ci sta dicendo che la direzione è quella corretta. La candidatura è un incoraggiamento a tutti noi di Still I Rise».
Nel 2018, con altre due volontarie, ha fondato la onlus Still I Rise. Qual è il fine ultimo? «Le due volontarie sono Sara Ruzek e Giulia Cicoli: tutto questo esiste grazie a loro. Nel 2018 eravamo a fare volontariato in Grecia, a Samos. Là i bambini profughi non avevano accesso alla scuola, nonostante dovrebbe essere un loro diritto inalienabile, in quanto minori su suolo europeo. Parliamo di un tasso di frequentazione della scuola pubblica dello 0%. Decidemmo di realizzare una scuola, per rispondere ad un bisogno e ad una violazione. Siamo partiti in 3 ed oggi siamo 50 volontari, con 3 Paesi in cui abbiamo attività in corso: Grecia, Turchia e Kenya. Le scuole in Turchia e in Kenya apriranno entro la fine del 2020».
Dallo scorso ottobre vive in Turchia, per seguire i lavori della prima Scuola Internazionale. Come procede? «La Turchia ha un sistema burocratico diverso dal nostro. Gli ultimi mesi sono stati all’insegna di incontri con avvocati e notai. Siamo ad un ottimo punto, l’edificio è pronto e ammobiliato e ha dimensioni tali per cui riusciamo a mantenere un rapporto molto stretto con i ragazzi, che è una cosa fondamentale per la loro crescita. Ospiterà 150 bambini tra i 10 e i 17 anni, ma non sono mai soddisfatto, vorrei che le scuole fossero sempre più grandi».
Tanta sensibilità da dove arriva? O vuole dirmi che tutti potremmo agire come lei? «Sono una persona normalissima, sono stato bocciato come tanti, ero ribelle come molti. A 14 anni rubavo le biciclette. Forse è anche per questo che ora mi viene più facile ascoltare le esperienze di questi ragazzi e capirle appieno. Dopo la candidatura al Nobel la gente ha pensato che fossi una specie di eroe, ma vorrei tranquillizzare tutti sul fatto che sbaglio, mi arrabbio, sono imperfetto, come chiunque».
Perché i profughi fanno paura? «Perché mostrano quello che potremmo essere noi. Ci fanno vedere quanto la loro esistenza sia sottile, volatile, in balia degli eventi. E vedere un altro essere umano in quelle condizioni ci fa paura perché inconsciamente ci immedesimiamo anche se pensiamo di esserne distanti».
Come si cambia il mondo? «In maniera collettiva. È tanto semplice quanto banale, ma è la verità. La gente deve unirsi, prendersi per mano e fare piccole azioni che cambiano il sistema in modo intelligente, senza stravolgimenti».
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