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Richard Gere: Nel nome del padreA 71 anni diventa papà per la terza volta, mentre in tv è protagonista di “MotherFatherSon”: nella realtà e nella finzione per Richard Gere la famiglia rimane il valore più importanteGio 02 Lug 2020 | di Alessandra De Tommasi | Interviste Esclusive
Quando ti guarda, sembra che strizzi sempre gli occhi, quasi per metterti a fuoco meglio e fare in modo che tutto il resto del mondo scompaia. Richard Gere ha il potere di farti sentire l’unica persona che conti nella stanza e non è facile, visto che di solito è affollatissima di assistenti, addetti alla sicurezza, portavoce, make-up artist e uffici stampa. Spiazza sempre con la gentilezza e all’altro non resta che la resa, ma con un sorriso. Questo 2020 sarà memorabile per l’attore di “Pretty Woman”, per moltissimi motivi, alcuni di carattere globale, ovviamente, come la pandemia, altri invece di tipo personale. Per la terza volta diventa papà, all’età di 71 anni, a dimostrazione del fatto che la dimensione del gioco resterà ancora a lungo uno degli appuntamenti necessari della sua giornata. Sul lato professionale, invece, la svolta arriva – come spesso di questi tempi – dal piccolo schermo: non l’ha mai incuriosito in tutta la carriera, eccezion fatta per un piccolo ruolo in “Kojak”, e ora invece ha trovato la dimensione giusta per sperimentare. Si chiama “MotherFatherSon” ed è l’ultimo gioiellino seriale in onda su Sky Atlantic. Già da tempo ha dirottato tutti i suoi impegni su personaggi di spessore, anche a costo di trascurare la commedia, un genere che gli ha ritagliato un posto d’onore nel cuore del pubblico.
Le piace prendere rischi, nella vita e nella carriera. Cosa l’ha spinta verso la TV, per la prima volta dopo 40 anni? Per esempio?
«Si parla di sfide di potere, di politica, dell’influenza del denaro su tutti, che si tratti di privilegiati o poveri diavoli. Ci si chiede: la mia famiglia è più importante degli altri? Cosa conta davvero? E non c’è modo migliore di farlo che mettendosi in gioco. Sono fermamente convinto che se riusciamo a rendere appassionante questo rapporto tra madre, padre e figlio per il pubblico tanto quanto è stato per noi allora sarà un viaggio condiviso e interessante».
Che genere di famiglia racconta? «Nella serie ritroviamo le famiglie che esistono davvero nella realtà e spesso sono disfunzionali, ciascuna a modo proprio, e questa lo è senz’altro. Si parla di una madre, di un padre e di un figlio in una relazione che li distrugge ma che poi li porta a cercarsi, qualcosa in cui tutti possiamo riconoscerci».
Eppure c’è molto altro in ballo… «Su questi rapporti interpersonali s’innesca una storia di politica internazionale, i movimenti populisti che infettano il Pianeta e così gli argomenti d’attualità, di politica e società si amalgamano con le dinamiche umane e domestiche».
Lo ammetta, è stato attratto anche dalla possibilità di trasformarsi in cattivo… «Per me Max Finch non è né cattivo né malvagio, anzi potrebbe essere uno di noi, ma con più potere e soldi. È un personaggio alla “Quarto potere”, che viene dal mondo dell’acciaio da cui poi si è staccato per lanciarsi nell’editoria: ha comprato un quotidiano e poi vari periodici, inclusi alcuni tabloid, fino ad acquisire un magazine rispettabile coinvolto ad alti livelli politici. Quello che mi affascina è scoprire le complicate circostanze che lo hanno reso l’uomo che è. Quando riusciremo a decifrarlo sarà più semplice anche capire le dinamiche di alcuni nostri leader, spesso molto rispettati eppure con storie personali disastrose».
A proposito di leader, c’è qualcuno di cui non accetterebbe un invito a cena? «Non credo dividerei mai la tavola con Donald Trump o potrei accettare mai una cena, neppure se m’invitasse».
In questo periodo di grande instabilità, si protesta per moltissime ingiustizie, ad esempio per salvaguardare i diritti delle persone di colore. Pensa che gli Stati Uniti siano meno tolleranti oggi? «Il numero di reati d’odio è aumentato negli USA dopo l’avvento di questa Presidenza. Si punta sulla paura, che porta a compiere azioni tremende. Dobbiamo stare attenti a come parliamo gli uni agli altri. Credo che il più grande errore di Trump sia stato associare i terroristi ai rifugiati, invece di considerarli persone da accogliere e aiutare. Questo comportamento lo considero un crimine che si ripercuote ovunque nel mondo. Siamo tutti umani e condividiamo la stessa terra, quindi dobbiamo venirci incontro e collaborare».
Il leader sul set è il regista. Lei si considera un attore docile a seguire le indicazioni?
«Da un lato è liberatorio che sia qualcun altro a prendere tutte le decisioni, quindi io mi limito a mettere in scena la sua visione, anche se non sempre capisco dove mi porta. Non sono di quegli attori che fanno milioni di ricerche, si riempiono d’informazioni e studiano a tavolino i personaggi. Per me entrare in un ruolo è un processo creativo aperto e così evito di caricarmi di eccessive pressioni. Se poi il regista è anche un mio amico, qualcuno di cui mi fido e conosco da anni, allora di sicuro diventa un punto di partenza per me su un set per lavorare bene, in sintonia».
Si spieghi meglio. «L’atmosfera su un set la decide il regista e se lui crea un ambiente armonioso e sereno allora tutti sono a proprio agio. Io mi trovo nell’ultima parte della mia vita terrena e considero una benedizione il fatto di lavorare ancora, ma ci devono essere le condizioni giuste».
Anche a costo di qualche sacrificio personale, come quando è diventato un senzatetto per il film “Gli invisibili”?
«In pieno centro, a New York, quando ero per terra e vestivo i panni di un clochard per esigenze di copione nessuno mi ha degnato di uno sguardo, figuriamoci poi riconoscermi. Trovarmi dall’altra parte mi ha reso invisibile, tossico: un senzatetto irradia un senso di fallimento da cui ci vogliamo tenere lontani, che non c’interessa e a volte genera astio e rabbia».
Non sarà stato facile per lei ritrovarsi a chiedere l’elemosina. Cos’ha provato? «La religione buddista prevede che si tenda la mano per chiedere, ma non si tratta di accattonaggio né si domanda qualcosa per sé o per alimentare delle dipendenze. In pratica, permette agli altri di dare un’offerta e quindi innescare un merito positivo. Quanto, invece, al mio stato d’animo durante la finzione scenica, non credo possa minimamente parlare di autentico disagio perché non avevo davvero bisogno di cibo o soldi e, finché non ti trovi in questa situazione di totale indigenza, non puoi immedesimarti totalmente».
L’anonimato, invece, è stato liberatorio?
«In quel momento osservavo solo come ormai ognuno vive in un isolamento totale, nella bolla personale degli smartphone, e nessuno nota quello che gli succede. Ho vissuto un’unica eccezione: due ragazzi afroamericani mi si sono avvicinati, preoccupati, e mi hanno chiesto: “Richard, come stai?”. Questo spiega come loro siano più attenti perché vivono esperienze diverse e da cui dovremo prendere esempio».
La lezione più grande che vuole trasmettere ai suoi figli? «L’empatia: solo mettendoci nei panni degli altri possiamo trovare la luce ed essere felici».
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