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Scuola, il ritorno?

Dal 14 settembre tutti in aula. In attesa delle disposizioni ministeriali, come affrontano il ritorno presidi, professori e alunni?

Gio 27 Ago 2020 | di Angela Iantosca | Attualità
Foto di 25

Si torna finalmente in aula il 14 settembre. E, mentre si avvicendano riunioni, proposte, idee, acquisti di banchi con rotelle, e mentre si stabiliscono distanziamenti, limiti, regole; presidi, professori e genitori si interrogano sul futuro, senza trascurare l’impatto emotivo che il Covid ha avuto sui ragazzi da un punto di vista relazionale e dell’apprendimento. Da Nord a Sud ci si attrezza per affrontare una rivoluzione inaspettata, ma forse necessaria, per la scuola, basata sempre più sulla relazione tra alunni e docenti e in cui i professori devono riacquisire il proprio ruolo: non tanto e non solo quello di trasferire contenuti, ma soprattutto quello di accompagnare la crescita del ragazzo. 

Per comprendere cosa sta accadendo e cosa accadrà, abbiamo raggiunto Federico Samaden, dirigente di un Istituto Alberghiero del Trentino, Alessandra Angelucci, docente presso una scuola in Abruzzo e il #Disobbediente Andrea Franzoso che celebra il ritorno dell’Educazione civica nei programmi delle scuole italiane, dopo 30 anni, con un libro dedicato alla Costituzione.


 


In presenza! Ripresa e resilienza

Si torna tra i banchi di scuola cambiati ed emozionati: come agire per garantire ai ragazzi il giusto apprendimento 

di Emanuele Tirelli

Tutto quello che è accaduto, la pandemia, il lockdown, l’impossibilità di andare a scuola e di frequentare le lezioni in aula, «porterà a una grande capacità di resilienza: essere forti e tirare fuori tutti gli strumenti che l’essere umano ha in sé, utili per quando accadono vicende così complesse». Doriana Caruso è una psicologa clinica che lavora come tutor alla “Scuola del fare” Giulia Civita Franceschi di Napoli. Segue i ragazzi dal punto di vista socio-relazionale ed è una figura di raccordo tra docenti, alunni e famiglie.

La sua è una percezione positiva?
«Abbiamo cercato di ottimizzare il lavoro. Non ci sono stati ansia e tensioni, anche perché ai ragazzi è stato spiegato bene come sarebbe stata la ripresa in aula, quali accortezze e regole osservare, come comportarsi rispetto alle norme anti-Covid. In poche parole, abbiamo fatto prevenzione».

Ma i ragazzi come hanno affrontato questi mesi?
«Si sono sentiti smarriti. Non hanno potuto avere un contatto diretto, in presenza, con i docenti e con i propri compagni. Il virtuale è diventato normale. Quando è finito il lockdown hanno ripreso a vedere i loro amici, ma le dinamiche della scuola sono diverse. Ci sono regole e routine nelle quali farli entrare di nuovo. Bisogna ricollocarli dal punto di vista relazionale, emotivo, altrimenti a pagare sarà il loro apprendimento. Questo vuol dire che dobbiamo continuare a prenderci cura di loro, ancora di più. Non si può fare finta che non sia accaduto nulla, solo perché negli ultimi mesi abbiamo avuto la possibilità di uscire di nuovo di casa. La pandemia è ancora in atto e quello che hanno vissuto va guardato con attenzione».

Qual è stata la reazione dei genitori?
«Si sono affidati. La didattica a distanza ha creato una buona collaborazione, spesso più forte rispetto a quella in presenza. Si sono rimboccati le maniche accanto ai figli e credo che abbiano compreso maggiormente l’importanza e il lavoro dei docenti. Penso che questo avrà una buona ricaduta sul nuovo anno scolastico e sul futuro. La scuola e le famiglie devono collaborare per il bene comune dei ragazzi. Non sono due fazioni contrapposte».

Ecco: i docenti.
«Non hanno mai smesso di lavorare. Hanno cercato di essere di sostegno ai ragazzi, come un punto di riferimento in questo momento difficile. Adesso bisogna legare la didattica a distanza a quella in presenza, come un continuum. Le riunioni a scuola sono riprese a luglio, poche. Il resto è stato svolto ancora tramite Internet. Ritornare in aula sarà emozionante per tutti».
         
CONSIGLI... DI LETTURA
Leggere ad alta voce ai bambini del nido ogni giorno, per un’ora, apporta numerosi benefici, tra cui un importante incremento dello sviluppo del linguaggio, un aumento del 15% rispetto alla crescita regolare dei bambini 0-3 anni. Non solo: aumenta il livello di attenzione, migliora la memoria e sviluppa l’interesse verso i libri. Lo rivelano i dati della ricerca condotta dall’Università di Perugia nell’ambito di “Leggere: forte! Ad alta voce fa crescere l’intelligenza”, politica educativa pluriennale di Regione Toscana che ha l’obiettivo di inserire la lettura ad alta voce quotidiana nelle scuole di ogni ordine e grado come strumento per il successo scolastico. I dati dimostrano come la pratica della lettura ad alta voce influisca in maniera significativa sulla crescita della fascia 0-3 anni: i bambini, oltre a incrementare lo sviluppo del linguaggio, aumentano il livello di attenzione e i tempi di lettura, passati da 22 a 59 minuti in cinquanta giorni, migliorano la memoria e sviluppano un interesse verso i libri e la lettura.

 


La scuola delle relazioni

I cambiamenti positivi e necessari post Covid secondo Federico Samaden: maggiore uso del materiale online, recupero del ruolo reale dei docenti

di Angela Iantosca

«C’è una gran voglia di tornare alla normalità. Credo sia naturale dopo una esperienza di questo tipo. E questa sensazione porta con sé l’idea sempre più forte di una scuola che va avanti tramite le relazioni non tramite uno schermo». 

Ne è sempre più convinto Federico Samaden, da una decina di anni dirigente dell’Istituto Alberghiero di Rovereto e Levico Terme. 
«Tra le righe di questa cosa buona c’è un dato che a mio avviso è meno buono: quando avviene qualcosa che ha in sé una forte componente di criticità, ma anche semini di innovazione, la voglia di normalità potrebbe far vanificare questi semini, facendo archiviare questa esperienza. Cosa che sto cercando di scongiurare».

Come si rischia di archiviarla? 
«Assicurandosi all’abitudine. E ricordiamo che l’abitudine è il contrario dell’educazione, eppure nelle scuole spesso c’è abitudine. Invece le scuole sono luoghi magici in cui si raccolgono tanti punti interrogativi a cui non si può dare una risposta certa. Tutte le problematiche, tutti i punti interrogativi devono essere moltiplicati per il numero di ragazzi presenti in istituto e gli adulti se ne devono far carico e tutto questo come contrappeso porta alla ricerca di punti di rassicurazione. Quindi, con un po’ di coraggio non si dovrebbe aver paura di aprire delle strade. Invece, già in precedenza, ogni volta che ho provato a cambiare delle abitudini, mi sono scontrato con forze avverse e mi sono accorto che c’è una lentezza nei processi di innovazione. Quando parliamo di innovazione pensiamo sia rapida. A scuola, invece, ha dei tempi molto lunghi perché, per dare sicurezza a molte insicurezze, devi essere un bastimento lento, non puoi fare una curva a 90 gradi. Non a caso a scuola si parla di innovazione di prossimità: ogni anno rinnovi un pezzettino vicino a quello dell’anno prima. Un principio che non sarebbe sbagliato se non ci fosse la variabile del cambio dei docenti, del dirigente che rende difficile capitalizzare e suddividere in un progetto quinquennale. Quindi la scuola è sempre più spesso uguale a se stessa».

Ma veniamo al semino dell’innovazione che ha portato il Covid.  
«Il semino dell’innovazione è il digitale: il Ministero ne parlava da 20 anni, ma non era mai stato compiuto il passo. A spingere in avanti il cambiamento è stato un virus, una situazione di emergenza. I docenti sono stati bravissimi, ma credo che da questo momento si possano cambiare delle cose. Mi spiego: appena si è passati alla didattica a distanza i professori si sono affannati a realizzare lezioni on line. Ma la domanda che mi pongo è: vale la pena fare tutti questi sforzi per un contenuto che si può già trovare on line, fatto meglio? Nel nostro caso, trattandosi di Alberghiero, se pensiamo alle ricette, in assenza del lavoro in laboratorio, è bastato andare su uno degli innumerevoli siti di cucina per apprendere dei contenuti. Quindi cosa dovrebbe fare il professore o cosa avrebbe dovuto fare? Selezionare questi contenuti, laddove è necessario e lavorare su un altro piano: quello della relazione, della riflessione. Il ruolo del docente inteso come ora è vecchio, perché non permette una interpretazione della relazione in maniera più piena e profonda: quando ti limiti a trasferire i contenuti, gestisci l’emergenza quotidiana sempre, a seconda del casino che hai in classe, ma fai fatica a rendere utile quel momento per la crescita del ragazzo. Quindi, costruiamo una scuola che non abbia paura di ammettere che i contenuti li trovi fatti meglio in rete. Sarebbe un alleggerimento per il docente che deve trovare altri canali, deve personalizzare la riflessione, cosa che invece la rete non può fare. Il compito del docente è mettere insieme i ragazzi e fare una didattica che stimoli in loro la nascita e la crescita di skills».

Quindi questo è il semino buono del Covid. 
«Sì! Quindi ho chiesto ai dipartimenti di prendere i programmi - che di solito ogni docente assume a fotocopia dall’anno prima –, di spacchettarli in moduli didattici. Ogni modulo sarà di 20 ore. La somma dei moduli farà il programma dell’anno. E tutto il materiale sarà in rete. Quindi il ragazzo quando va a scuola non trova un docente che gli ripete la stessa cosa, ma ragiona con lui. Se non si trovano dei contenuti on line, si possono contattare dei player chiedendo di costruire questi corsi. Sarebbe un successo poter dotare ogni scuola di una piattaforma che può usare tutta Italia, con dentro tutti i contenuti. Sarebbe una grande azione collettiva. Se fossi Ministro lo farei subito. Se capita di nuovo una situazione come quella del Covid saremmo tutti pronti. Ma anche se i ragazzi fossero a casa per malattia avrebbero tutto. Poi si avrebbe una grande possibilità di migliorare l’apprendimento dei ragazzi, grazie ai docenti. Vorrei che almeno la trasmissione dei contenuti fosse uguale per tutti. La parte relazionale, invece, deve essere diversa per ognuno. Ma nessuna scuola che conosco ha chiaro che il ruolo del professore è accompagnare la crescita non trasferire contenuti».

Sul distanziamento?
«Se avessero irrigidito a monte le regole, avrebbero bloccato il Paese. Quindi ora il distanziamento deve essere un metro da bocca a bocca, esattamente come era. Io ho fatto i rilievi e ci stanno gli stessi numeri di ragazzi. Forse qualcosa in meno. Avrò classi meno numerose, da 18 ragazzi: farò qualche classe in più. Ma non è molto stravolgente. Bisogna stare attenti nei laboratori, dove comunque i ragazzi devono lavorare a distanza di sicurezza. Certo, se per caso accade qualcosa, allora la scala delle responsabilità arriva addosso al dirigente. Quindi noi siamo esposti su questo tema.  Il primo caso sarà un discriminante importante e a quel punto controlleranno se è stato fatto tutto a norma… Credo che la Azzolina, il nostro Ministro dell’Istruzione, sia preparata: è una docente e conosce le dinamiche scolastiche, ma è nella gabbia dei leoni... E la storia dei banchi con le rotelle non mi vede d’accordo: le rotelle implicano per il futuro una manutenzione che la scuola non si può permettere e soprattutto nella scuola la priorità non sono i banchi! Sulla vigilanza da aumentare direi che si potrebbero usare i disoccupati, facendoli entrare a scuola, stare con i ragazzi. Perché non si capisce che il problema vero di chi è disoccupato è il venir meno dello strumento di espressione di sé! La gente ha bisogno di sentirsi viva!». 

Da dieci anni dirigi questo istituto, cosa stai imparando dagli adolescenti?
«Sto imparando tanto degli adolescenti. A San Patrignano (Federico Samaden, dopo essere stato ospite della comunità, ha diretto la struttura di Trento per 20 anni – ndr) avevo a che fare con persone che spesso avevano cervelli fermi all’adolescenza e corpi cresciuti… Nella scuola ho scoperto ciò che accade nella testa di un adolescente. Di solito si dice: quando noi eravamo giovani lottavamo per dei valori, adesso i giovani non lottano per nessun valore. E questo è il ragionamento più scontato. Ed è la stessa cosa che negli anni Sessanta i grandi dicevano dei figli. Ma c’è qualcosa che non mi quadra. Credo che questi ragazzi di oggi semplicemente siano figli di un’epoca e interpretino questa epoca. È inutile fare paragoni. La vita è unica e non deve far capo ai giudici reciproci, altrimenti si spezza quel filo che lega la vita dalle origini ad oggi. Il filo è unico ed è quello che collega il senso della vita. Quindi non penso che i ragazzi non abbiano il valore della vita, ma sono cresciuti in una epoca squinternata in cui il mondo adulto, negli ultimi 30-40 anni, ha perso la scala dei valori che si è mischiata, è stata contraffatta da quella parte della società – forse figlia della fame – che vuole mangiare tanto e mangiare tutto. Questa è una condizione che ha stravolto completamente il mercato e le relazioni tra le persone. La condizione di oggi ha da qualche parte un collegamento con questo stravolgimento. E in questa fase di emergenza possiamo riflettere un po’ di più su queste cose. È impossibile non farsi alcune domande soprattutto pensando ad una ripartenza. Gli adolescenti sono esseri umani che hanno dentro di sé le stesse cose che ho avuto io, mio padre, mio nonno, hanno il germe della vita che porta dentro di sé altri microgermi che sono curiosità, ricerca, paura. Gli ambienti in cui si vive aiutano a sviluppare una o più parti. Gli adolescenti sono ragazzi alla ricerca di questo ricollegamento, lo stanno cercando disperatamente. Senza avere forse più la consapevolezza di questo germe della vita. Spesso subendo il giudizio dei loro errori. Perché una cosa che si è andata sempre più affermando, e che è legata alla crescita degli ego, è proprio quella di giudicare gli altri, a partire dai propri figli. Ecco questo è il vero distanziamento sociale non il Covid-19. Il distanziamento attraverso il giudizio che è figlio dell’affermazione di sé collegata all’ipotesi di mangiare il più possibile».            

 


La rivoluzione di una scuola virale

Alessandra Angelucci, insegnante e giornalista, racconta il lockdown in un libro, in attesa di riabbracciare i suoi studenti

di Angela Iantosca

Ammettiamolo, stavamo abdicando alla tecnologia e al distanziamento sociale che essa porta in sé. Poi è arrivato un virus con le sue regole: isolamento, no contatti fisici, chiusura in casa, mascherine e guanti, distanza di sicurezza. E forse qualcosa è cambiato: nel perdere ciò che davamo per scontato (come sempre), abbiamo compreso ciò che conta davvero. 
Anche la scuola lo ha sentito forte questo cambiamento, questo limite, questa perdita. Ha sentito che sì la tecnologia può essere un valido supporto, ma che a uno schermo manca tutto ciò che ha a che fare con le relazioni umane, con il sentire l’altro, odorarlo, percepirlo in tutte quelle sfumature. E allora quello schermo che ha unito, che è stato prezioso e che ha reso possibile ciò che sarebbe stato impensabile fino a qualche anno fa, è tornato (anche grazie a questo periodo) a ricoprire il suo ruolo: di semplice oggetto da usare. Proprio della scuola, di ciò che è stato vissuto, di questo distanziamento forzato, delle paure dei ragazzi e anche dei professori parla Alessandra Angelucci, giornalista e insegnante, nel libro che è stato scritto durante il lockdown e che è stato pubblicato a maggio “Contatto – Rivoluzione di una scuola virale” (Castelvecchi). 
«Il libro è nato dalla condivisione con la casa editrice, con cui avevo già collaborato in passato, dell’idea di portare il punto di vista di una insegnante. Nel romanzo io sono Amelia, una insegnante, appunto, che si trova a vivere una situazione nuova, impattante, rivoluzionaria. Una esperienza mai vissuta, a differenza di chi ci ha preceduti anagraficamente che ha attraversato altre epidemie, come la Spagnola e l’Asiatica. Eravamo in lockdown. Erano i primissimi giorni. Io ero a casa da forse due o tre giorni quando ho cominciato a scrivere, dopo aver immaginato una storia, con un punto di vista pieno di speranza, che è il mio punto di vista».
 
Tu, da insegnante, come hai vissuto quel periodo? 
«Io sono una docente di lettere, insegno italiano e storia nel Polo scolastico liceale di Nereto, in provincia di Teramo. Insegno a ragazzi dai 14 ai 19 anni. È stato tutto molto forte inizialmente. E vivendo anche da sola, non avendo la possibilità di interagire fisicamente con nessuno, non avendo una vicinanza fisica e affettiva, il dolore e la tragedia sono state amplificate, perché è venuto a mancare il contatto. Nonostante questo, non ho vissuto in maniera negativa quella che è stata poi l’esperienza del vivere la mia casa, che, nel mio quotidiano, tendo a vivere poco perché non ci sono mai a casa tra scuola e giornalismo. Ma ho sentito anche forte l’aura di morte intorno a me: credo che nessuno di noi dimenticherà le camionette che da Bergamo portavano via le anime di chi è andato via nella piena solitudine. Dall’altra parte ho fatto nuova esperienza della solitudine positiva, di quella dimensione più vicina a se stessi che mi mancava in una vita che è sempre piena di cose. Anzi direi sovraccarica». 

Com’è andata con la tecnologia?
«La protagonista del romanzo, Amelia, potrebbe rappresentare tutti gli insegnanti di questo Paese che hanno preso parte a una vera rivoluzione digitale: quante risorse si mettono in campo per dar vita ad una scuola inclusiva, una scuola che renda eguali ed equi per gli strumenti. Lo si fa sempre e lo si è fatto in questo periodo. Ma la grande rivoluzione di cui parlo in questo libro è questa: dove non è arrivato e non arriva lo strumento arriva l’uomo. Quindi il docente. Che deve essere presente sempre, deve mettere a disposizione il proprio tempo attraverso ogni modalità. Io, come tanti altri colleghi, ho tenuto il telefono sempre acceso, interagendo per qualsiasi problema. Abbiamo dato affetto, abbiamo garantito ascolto, non imitandoci alla disciplina. I ragazzi e gli adulti si sono trovati a vivere qualcosa che mai avrebbero pensato di poter vivere e hanno dato prova che lo strumento tecnologico - e parliamo di nativi digitali – non può sostituire la grandezza della persona. E quando dico grandezza intendo tutto ciò che la persona può dare e può essere, con la voce, il volto, la vicinanza, l’espressione. E tutto questo un professoressa lo fa solo quando è in aula». 

Come i ragazzi stanno pensando il rientro?
«In questo momento non credo ci sia da parte degli studenti una profonda riflessione (l’intervista è stata realizzata a fine luglio - ndr), perché hanno acquisito il sapore della libertà, si sono potuti riapprociare alla normalità. Ed è sotto gli occhi di tutti questa contraddizione che vediamo come se non ci fosse un decreto che legifera e regolamenta il comportamento degli italiani. Le famiglie sono sicuramente preoccupate perché le famiglie avranno la responsabilità di monitorare la temperatura dei ragazzi. Si parlava di misurare la temperatura a scuola. In realtà ci sarà un rientro a scuola, ma la misurazione della temperatura avverrà a casa, perché deve essere scongiurato il contagio anche nel passaggio da casa a scuola. Sono certa che si discuterà molto sul rimpallo delle responsabilità… Ma in questo momento penso ai dirigenti scolastici che hanno anche la responsabilità penale. E noi insegnanti abbiamo in mano la responsabilità della vigilanza e di ciò che accade nelle aule. E se ci sarà un contagio di chi sarà la responsabilità? Per il momento comunque ci sono delle proposte che verranno vagliate, ma quello che è certo è il rientro il 14 settembre. La didattica a distanza è contemplata come modalità complementare solo per la scuola secondaria di secondo grado».      

 


Viva la costituzione                                                             

Andrea Franzoso, dopo il #Disobbediente, torna in libreria con un nuovo testo per spiegare la Costituzione ai ragazzi attraverso le parole e le storie 

di Angela Iantosca

Era stata cancellata dai programmi nel 1990. Ma da settembre torna alle scuole elementari, medie inferiori e superiori per almeno 33 ore complessive ogni anno. L’Educazione civica rientra così nelle aule dalla porta principale. E con lei torna in libreria anche il #Disobbediente Andrea Franzoso con un testo per ragazzi edito da DeAgostini dal titolo “Viva la Costituzione - Le parole e i protagonisti. Perché i nostri valori non rimangano solo sulla Carta”. «È da due anni che giro nelle scuole, che parlo ai grandi e ai piccini di integrità attraverso la mia storia di denuncia (Andrea Franzoso ha denunciato il capo per aver sottratto soldi all’azienda per fini personali - ndr). È stato dunque naturale arrivare a pensare ad un libro per loro. Sentendolo come tema mio, ho capito di poter offrire qualcosa di diverso. Diverso soprattutto da come l’Educazione civica è stata insegnata a me e ai miei coetanei: ricordo ancora la copertina di colore beige, insignificante. E le foto all’interno in bianco e nero. Ricordo che c’era la foto del Parlamento, di Montecitorio, del Quirinale, di alcuni Presidenti della Repubblica. C’era tanta teoria e si spiegava come venivano eletti i Deputati. Ma a me non interessava, la trovavo un’ora davvero noiosa. L’Educazione civica di cui avevo ed ho bisogno non è il conoscere quanti sono i Deputati o i Senatori. L’Educazione civica per essere spiegata, compresa e trasmessa ha bisogno della narrazione. E in fondo la narrazione è il modo che l’uomo conosce da sempre. Il racconto è qualcosa che ci tocca nel profondo. I valori non possono essere compresi soltanto in modo razionale. L’intelligenza deve scendere nel cuore. E per entrare nel cuore, bisogna lavorare di empatia. L’educazione deve essere, dunque, legata al sentimento: è un plasmare, è un ordinare la passioni disordinate, è passare dall’egoismo alla solidarietà, alla difesa del bene comune». 

Per esempio?
«Posso spiegare la parità tra uomo e donna in modo teorico, ma posso farlo anche attraverso una storia. Se racconto una storia di soprusi e il ragazzo che ascolta si indigna, vuol dire che il messaggio è passato».

Com’è strutturato il libro?
«Il libro è diviso in 18 capitoli, in cui ci sono 20 parole spiegate attraverso le storie. Ti faccio l’esempio della parola Pace: nella Costituzione si dice che l’Italia ripudia la guerra. Per spiegare questo sono partito dalla storia di Vito Alfieri Fontana, che era un imprenditore proprietario di una fabbrica di armi, in primis di mine antiuomo. Un giorno del lontano 1992, il figlio, in macchina con lui trova le schede tecniche delle armi che produce. Il bambino si mette a sfogliare il catalogo e domanda al padre: «Ma sei un assassino?». Il padre rimane di ghiaccio e il figlio aggiunge «devi per forza farle tu?». Il padre entra in crisi, chiude la fabbrica e poi comincia a fare lo sminatore. La sua unica preoccupazione sino a quel momento era stata quella di fare le armi migliori. Non si sentiva responsabile, non pensava ai bambini che uccideva. Perché di chi è la colpa della guerra? Di nessuno e di tutti. Attraverso questa storia voglio spiegare il significato della frase “L’Italia ripudia la guerra”. Perché “ripudia” e non “rifiuta”? Perché l’Italia ha avuto a che fare con la guerra».

Come hai scelto le parole?
«Sono parole della Costituzione, tranne due, memoria e resistenza che ho pensato fosse importante introdurre». 

Oltre alle storie, nel libro ci sono contributi molto importanti. 
«Su singoli temi ho chiamato degli esperti autorevoli. Per la parola “Straniero”, mi sono rivolto all’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, quando parlo del ruolo dei giornalisti in una democrazia, do la parola alla Gabanelli. Per capire quali sono le qualità che deve avere un dipendente pubblico, mi sono rivolto a  Piercamillo Davigo. Il rapporto tra salute e ambiente l’ho approfondito con Ilaria Capua». 

Si parla anche di Covid nel libro?
«Sì, in modo particolare. Parlo dell’evasione fiscale e spiega come questa incida sulla possibilità di trovare un letto libero in caso di bisogno. E poi ne parlo nel capitolo in cui interviene la Caputa. “Salute e ambiente: cosa ci insegna l’epidemia di Covid 19?”. E ancora parlo di ricerca scientifica attraverso Chiara Mariotti scienziata del Cern. Da studente non ho mai amato le materie scientifiche, ma lei è riuscita in un’ora di conversazione a farmi capire anche il Bosone di Higgs». 

Sanno cosa sia la Costituzione i bambini?
«Lo sanno, perché molti hanno affrontato il tema di Cittadinanza e Costituzione, ma con questo libro mi piacerebbe moltissimo che i bambini dicessero “che bella che è l’Educazione civica perché parla di noi”. Come diceva Calamandrei: “La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”. Ecco, la responsabilità, parola dalla quale è importante ripartire».    

ANDREA FRANZOSO
Ha una laurea in Giurisprudenza, un baccalaureato in Filosofia, un master in Business Administration. È stato cadetto dell’Accademia Militare di Modena e per otto anni ha prestato servizio come ufficiale dei Carabinieri, congedandosi col grado di capitano. Ha vissuto quattro anni coi Gesuiti, ha lavorato in azienda. Oggi si occupa di educazione civica, dalla primaria alle superiori. Per De Agostini ha scritto anche “#Disobbediente! Essere onesti è la vera rivoluzione”.

 


L’APP vs il bullismo

“Mobout”, l’App contro il bullismo e il cyberbullismo destinata ad entrare nelle scuole di ogni ordine e grado. L’ideatore è uno studente di Benevento

di Marzia Pomponio

Si chiama “Mobout”, dall’unione delle parole mobbing e out, ed è un’App che permette a ragazzi e ragazze di segnalare, in forma anonima, episodi di bullismo o cyberbullismo di cui sono vittime o ai quali hanno assistito nella propria scuola. Basta compilare un modulo, descrivendo la circostanza, e inviarlo al personale scolastico referente per il bullismo, che lo visualizza sul proprio pannello di amministrazione. L’applicazione funge da vero e proprio campanello di allarme, al fine di monitorare all’interno dell’Istituto scolastico eventuali fenomeni di bullismo e poter intervenire con tempestività. L’ideatore è Boris Zamparano, 19 anni, neo diplomato dell’Istituto Tecnico Industriale “C. G. Bosco Lucarelli” di Benevento, che ha presentato la sua applicazione all’esame di maturità, conquistando non solo il massimo dei voti all’orale dalla commissione esaminatrice, ma anche l’attenzione della ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina. “Voglio complimentarmi Boris per il lavoro fatto. Ho avuto modo di vederlo personalmente e mi ha sorpreso molto. Non solo per la competenza digitale dimostrata, ma anche per la scelta del tema affrontato, quello del bullismo e del cyberbullismo. È bello vedere come i ragazzi siano consapevoli della necessità di contrastare certi fenomeni e come sappiano mettersi in gioco, essere loro stessi parte della soluzione del problema”, ha postato la ministra sulle sue pagine social. 
 
Cosa ha ispirato l’ideazione dell’App?
«La referente per il bullismo della scuola, la professoressa Lucia Boscia, ci ha presentato varie tematiche durante l’anno scolastico, poi, avendo il Ministero disposto delle linee guida particolari per questa maturità, a causa dell’emergenza sanitaria, tra cui la presentazione di un elaborato, ho pensato di unire l’informatica, la mia passione, al bullismo».

Da aprile sei sviluppatore di applicazioni per una società di software di Benevento, attenta al sociale. Quanto ti ha aiutato questa esperienza per l’ideazione dell’App?  
«Ha inciso sicuramente. Mi confronto quotidianamente su tematiche sociali con i ragazzi della “Dreamate”, viene spontaneo quindi sviluppare qualcosa che possa avere un’utilità in questo senso».

Mobout non è ancora sugli App Store. 
«No, al momento ho sviluppato l’applicazione e l’ho testata sul mio cellulare. Ora si dovranno apportare alcune modifiche, secondo le linee guida sulla privacy e vari aspetti tecnici, dopodiché sarà pubblicata sugli Store per Apple e Android e disponibile per tutti gli istituti scolastici».

Ti è capitato di assistere a episodi di bullismo e temere ripercussioni? 
«Sì, qualcuno. Accade di frequente, da quello che può essere il classico insulto a qualcosa di più grave, come un’aggressione fisica, e personalmente preferisco fare una segnalazione anonima piuttosto che metterci la faccia».

Diploma ottenuto. E adesso? 
«Sto valutando se intraprendere il percorso di studi in Sicurezza Informatica oppure continuare il lavoro già avviato nello sviluppo di software e in concomitanza fare qualche concorso nelle Forze Armate».                                       

#LaScuolaNonSiFerma
L’App “Mobout”, ideata da Boris Zamparano, 19 anni, presentata all’esame di maturità sostenuto nell’Istituto Tecnico Industriale “C. G. Bosco Lucarelli” di Benevento, rientra tra le esperienze che le scuole hanno messo in campo durante il lockdown, pubblicate sul sito del Ministero dell’Istruzione nella campagna #LaScuolaNonSiFerma. L’applicazione è nata da un progetto della professoressa Lucia Boscia, referente per il bullismo della scuola, con il supporto del dirigente scolastico, Maria Gabriella Fedele, dei professori Maria Marmorale e Armando Calabrese. Boris Zamparano ha ideato anche “Believery”, piattaforma per l’asporto e le consegne a domicilio sviluppata con il team della software house di Benevento “Dreamate”, per la quale lavora da aprile come web developer. 

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