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Burro italiano: c’è da fidarsi?Meglio quello italiano o quello straniero? Al burro è dedicato il test del mese de ilSalvagenteLun 26 Ott 2020 | di Valentina Corvino | Attualità
Da alimento desiderato, tanto da essere oggetto di mercimonio, quando vietato dalla Chiesa durante la Quaresima, a colpevole di ogni male. Il burro è stato protagonista, storicamente, di un rapporto di amore e odio in Italia. Culminato, negli ultimi decenni, con il pressoché totale bando, con l’accusa di contenere una quantità elevata di colesterolo cattivo. Non così all’estero, dove ha continuato ad avere un discreto successo.
Oggi continua a dividere, tra chi continua a guardarlo con sospetto e chi lo esalta. Ed è proprio a questo “nuovo” alimento - che nel nostro Paese è più simile a un condimento - che abbiamo dedicato il test del mese del Salvagente di ottobre.
A 18 anni di distanza dall’ultimo test del Salvagente che bocciava la qualità del burro italiano in favore di quello straniero, il confronto su 15 panetti promuove - seppur non sempre con il massimo dei voti - la maggioranza del campione. E non sembra, questa volta, bocciare il made in Italy. Una classifica, però, in cui non mancano le brutte sorprese.
La prima riguarda la presenza in qualche campione di lieviti e coliformi. Una presenza che non dovrebbe lasciare le aziende indifferenti - come suggerisce Daniela Maurizi, chimico e Ceo del Gruppo Maurizi - anzi dovrebbero approfittarne per un maturo esame di coscienza: la presenza di lieviti e coliformi, infatti, indica che, almeno nel lotto analizzato a voler essere buoni, c’è stata una falla nelle misure igieniche.
I nostri burri sono stati anche oggetto di una prova organolettica: 10 giudici esperti e addestrati hanno guardato, odorato e assaggiato i panetti e quello che è emerso è un quadro rassicurante a dimostrazione del fatto che anche un burro “da affioramento” (come è la maggior parte del nostro campione) può incontrare il favore di un palato esperto (e non solo).
In generale, se solo le industrie lo volessero, un’etichetta completa potrebbe facilitare la vita dell’acquirente. Invece di frasi vuote e senza grande senso, come “ottenuto da creme selezionate” o “da pascoli di montagna”, per esempio, sarebbe molto più utile specificare se si tratta di un prodotto ottenuto dal siero o tramite centrifugazione o ancora di affioramento. E, magari, segnalare anche caratteristiche chimiche importanti per riconoscere la bontà del prodotto, come acidità e perossidi.
Un miraggio? Per l’Italia sì, per i Paesi dove il burro si fa sul serio no, visto che in questi casi gli acquirenti trovano in anche la distinzione di qualità tra prodotto “normale” e “superiore”.
Da noi, invece, oltre l’origine del latte (conquista recente), c’è la tabella nutrizionale, magari un dosatore prestampato per conoscere la quantità di burro che stiamo utilizzando. Davvero poco.
La superiorità dello straniero? Questione di scelte
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