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Sono nato in un mulinoFulvio Marino, con la sua passione per l’arte bianca, è al fianco della Clerici, spopola su Instagram e veste i panni di direttore creativo per la panificazione di EatalyVen 26 Feb 2021 | di Nadia Afragola | Attualità
Fulvio Marino ha le mani in pasta da sempre e una storia nel cognome che lo precede. La farina che la sua famiglia produce, nell’omonimo Mulino, da tre generazioni è una delle migliori del nostro paese. Lui, così giovane, si è fatto quasi per caso testimonial di un fare tutto italiano che ha reso unica la nostra biodiversità. Lo trovate al fianco della Clerici su RaiUno, spopola su Instagram con le sue dirette e nel frattempo continua a vestire i panni del direttore creativo per la panificazione di Eataly.
Da panificatore a influencer di successo. Ci racconti la sua storia. L'amore per il pane è una passione o un'eredità familiare?
«Non sono figlio d'arte, non avevo a casa nessuno che fosse capace di impastare, nonna a parte che è una sfoglina e si dedica alla pasta fresca. La mia è una passione sfociata poi in lavoro. Sono un autodidatta anche se non nego di avere avuto una corsia preferenziale dettata dal fatto di essere un mugnaio e di avere quindi rapporti diretti con i panettieri, con cui c’è uno scambio proattivo».
Cosa fa di preciso un mugnaio? «Il lavoro del mugnaio non è costante, ma è quotidiano. La freschezza è uno dei nostri valori fondanti, cerchiamo di macinare il più possibile su richiesta. La presenza in mulino è più alta quando c'è più richiesta di prodotto, come in autunno, in inverno e nel periodo natalizio. Un momento molto importante è quello di giugno e luglio, per la raccolta e la selezione dei grani».
Il lockdown come è andato al mulino? «Siamo una realtà a conduzione familiare e artigianale. Non siamo presenti, Eataly a parte, nella GDO. Il canale on line ha funzionato bene, abbiamo accelerato nel settore B2C, ma perso tutti gli introiti derivati dalla ristorazione».
Cosa rende speciali le sue farine? «L'artigianalità. Abbiamo agricoltori dal nord al sud Italia e a seconda delle zone capiamo quali grani coltivare in base alle caratteristiche ambientali e del terreno. Abbiamo un mix di tecnologia e di tradizione importante, maciniamo con pietre di fine 1800 che vanno martellate manualmente per preservarne la funzionalità e allo stesso tempo puliamo i cereali con una selezionatrice ottica sviluppata dalla Nasa, che sceglie chicco per chicco, valutandone la composizione guardando all’interno.
Cerchiamo di rispettare e non rovinare ciò che la natura ha fatto».
Perché ha definito il suo pane "italiano"? «Perché è una tipologia di pane che abbraccia tutta la tradizione italiana. C'è la segale integrale, che descrive il Nord; il grano tenero, che parla del Centro, della Pianura Padana e delle Langhe; il farro, che richiama il centro Italia e la Toscana in particolare, e poi il grano duro, che rappresenta il Sud».
In poche parole, come si fa il pane? «Con gli ingredienti giusti e di alta qualità. Servono le tecniche corrette, la pazienza e tanta sensibilità. Se la pasticceria è più scienza e matematica, la panetteria è fatta di sesto senso e a volte di improvvisazione. Nel senso che devi sapere reagire velocemente ad un evento inaspettato».
Quanto è importante il lievito madre? «Fondamentale. Migliora la conservabilità del prodotto. Dona sapore e digeribilità. È una modalità di lievitazione che però non va bene per tutte le tipologie di pane. Va gestito e dipende da cosa si deve fare. In casa, se abbiamo tempo e se nella nostra routine riusciamo a fare il pane due volte la settimana, consiglio il lievito madre. Altrimenti va benissimo il lievito di birra».
E poi c'è il suo lievito madre. «Il mio primo lievito madre ha compiuto 20 anni nel 2020 ed ancora oggi lo utilizzo spesso. L'ho realizzato sotto un ulivo nel cortile del mulino. Nel tempo ne ho realizzati molti altri. Ma il primo è stato il più interessante, perché sono partito semplicemente da acqua e farina».
Quanto contano i tempi di lievitazione? «Sono fondamentali e variano a seconda delle farine e delle temperature. I tempi sono inversamente proporzionali alle temperature e sono direttamente proporzionali alla quantità di glutine contenuta nelle farine. Più alto è il contenuto di glutine e più i tempi vanno allungati. Questa è la regola generale. Quindi, un pane con tre ore di lievitazione può essere perfettamente digeribile, mentre non necessariamente una pizza è buona se ha 72 ore di lievitazione».
E l'acqua? «L'acqua è una variabile che purtroppo non è sempre controllabile. Bisogna adattarsi in base alle sue caratteristiche. Ci sono acque con quantità di sale maggiore che rallenteranno il processo del pane, ad esempio. Una regola di base è che l'acqua deve essere a temperatura ambiente o fredda».
A casa qual è la giusta impostazione del forno? «Se parliamo di panificazione e pizza il forno deve lavorare a livello statico; il ventilato è più adatto alla pasticceria».
Quanto costa un buon pane? «Il costo deve avere un termine di paragone. Se parliamo di farina di Enkir, che è un cereale primordiale che seminiamo in Alta Langa e ha un rendimento di 21 kg di farina ogni 100 kg di grano sul campo (contro i normali 80 kg di farina per 100 kg di grano sul campo), è naturale che il costo del prodotto finito sarà diverso. Il costo del pane di qualità andrebbe ridiscusso per riuscire a gratificare tutti gli autori della filiera. Altrimenti si parla di sfruttamento, di prezzi al ribasso e di logiche che strizzano l'occhio alla sola quantità e che hanno portato l'opinione pubblica a pensare che il pane debba costare 1,50 euro al kg».
Cosa fa per Eataly nello specifico? «Ricopro il ruolo di head baker in Italia e nel mondo. Controllo la qualità, realizzo nuove ricette e faccio formazione ai panettieri. Se vogliamo, sono il loro direttore creativo nella panificazione».
Quando ha deciso di fare cultura intorno al pane? «Il pane è uno dei pochi alimenti presenti su tutte le tavole del mondo, è cultura, va oltre l'aspetto alimentare. È per questo che necessita di approfondimento. Nei miei corsi non solo insegno le tecniche di panificazione, ma parlo anche della forte valenza culturale che c’è dietro un prodotto».
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