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Un cinema tra storie di dolore e di frontieraChe dolore trovare film che starebbero benissimo sul grande schermo “costretti” sulle piattaformeVen 26 Feb 2021 | TV/Cinema
Collective
Regia: Alexander Nanau
Piattaforma: PVOD
Voto: 5/5
Uno dei più bei documentari degli ultimi decenni. Non ce ne voglia Gianfranco Rosi che con il suo “Notturno” è in lizza con questo capolavoro per l'Oscar di categoria, ma il film di Alexander Nanau merita la statuetta. Il suo lavoro è qualcosa di politicamente, socialmente, giornalisticamente ma soprattutto cinematograficamente clamoroso. Nanau si mette sulle tracce di un gruppo di giornalisti di una redazione di un quotidiano sportivo romeno (un collettivo, appunto) che indaga sulla strage del Colectiv, una discoteca in cui un incendio e l'assenza di uscite di sicurezza a norma, il 30 ottobre del 2015, fece 27 vittime, una mattanza. Non pari però a quella successiva: le vittime, tra gli ustionati e i feriti, salirono a 64 in poche settimane. Un dolore collettivo in mezzo al quale uomini e donne aprono un'inchiesta che parte da una domanda semplice: come è stato possibile? Ne esce fuori uno scandalo sconvolgente, un sistema sanitario corrotto in cui denaro e potere valgono più delle vite umane, che vengono vendute per qualche quintale di disinfettante (diluito decine di volte e quindi inefficace) in più. L'inchiesta metterà in crisi il governo, porterà al ministero della sanità un attivista integerrimo e avrà come testimonianza un film in cui il regista riesce a riprendere ogni dettaglio, riesce a far diventare grande cinema una tragedia (la consapevolezza e la potenza dei movimenti di macchina di Nanau sono incredibili, così come il montaggio al limite della perfezione), restituendoci un'opera che ricorderemo nei libri di storia del cinema. E non solo, se è vero che il Times ha definito Collective "il miglior film sul giornalismo".
Notizie dal mondo
Regia: Paul Greengrass
Piattaforma: Netflix
Voto: 4,5/5
Il cinema è bello perché è vario. Paul Greengrass fa “United 93”, il più enigmatico, profondo, atipico film figlio dell’11 settembre, poi l’impegnato e bellico “Green Zone”, infine l’action “Jason Bourne”. E presto uscirà il suo orwelliano 1984. Tutto ti puoi aspettare da lui, tranne che possa tirar fuori dal cilindro un western ambientato 150 anni fa, un on the road tra un vecchio e una bambina, un Cormac McCarthy da Far West tra due solitudini che trovano il modo di uscire dalle loro prigioni diventando la chiave del cuore dell’altro. Le Notizie dal mondo sono quelle che il protagonista (Tom Hanks) legge nei paesi in cui va, per sbarcare il lunario dopo che tre guerre gli hanno minato il corpo e l’anima e alle armi, il pluriveterano, preferisce le parole. A volte anch’esse affilate se è vero che trova chi vorrebbe propinasse fake news. Incontra una ragazzina (la bambina prodigio Helena Zengel, straordinaria) che fu rapita dai Kiowa e che è rimasta vittima con loro di un agguato. Orfana due volte, come lui che ha forse combattuto per tre volte solo per perdere se stesso. Lei deve ritrovare la famiglia d’origine, anche se non parla nemmeno più la sua lingua e quella per lei non è casa. Lui decide di aiutarla, non solo per nobiltà d’animo. Esce fuori un duetto ruvido e bellissimo - meraviglioso lui che prova a insegnarle a parlare inglese e finisce per imparare lui i canti indiani -, profondo e a suo modo duramente ironico (e viceversa), con tanti rimandi all’attualità disseminati nell’identità frammentata di un paese ancora oggi diviso, razzista, lacerato e tante, troppe analogie tra il passato di una Frontiera conquistata e persa col sangue e un mondo ancora violento e prevaricante. Hanks come al solito pazzesco, panorami mozzafiato.
Lei mi parla ancora
Regia: Pupi Avati
Piattaforma: PVOD
Voto: 4/5
C’è qualcosa nel cinema di Pupi Avati che accarezza l’anima e dispone ad attenderne le intuizioni, accettarne i ritmi e le atmosfere, anche se cristallizzati in un altrove creativo, permesso solo a lui, a quella sensibilità provinciale e universale, a quegli occhi innamorati di tutto e incapaci di smettere di guardare indietro. Il regista parte dal libro di Giuseppe Sgarbi (padre di Vittorio ed Elisabetta), in cui un uomo perde la sua compagna dopo 65 anni insieme. Ma non smette di amarla, né di parlarci. E la figlia editrice decide di mettergli accanto uno scrittore, perché qualcuno col giusto distacco possa (de)scrivere quel sentimento straordinario. Avati si affida a Pozzetto, solito talentaccio che il cinema commerciale ci ha nascosto e rubato ma che in mano a chi sa, torna a brillare, Gifuni si ritaglia il ruolo funzionale al racconto e si dimostra bravissimo, la Ragonese danza con la solita grazia tra epoche diverse, la Sandrelli mette al servizio del personaggio la sua anima, Musella è eccellente nel restituire la gioventù di un’emozione. Il film a volte è discontinuo, ma dentro c’è l’Avati capace di agitare spettri e di muovere cuori, di raccontare amori che sembrano non esistere più. Come quello degli Sgarbi, come quello di Pupi, che della moglie parla sempre ma non la mostra mai. Una sorta di Tenente Colombo che così denuncia la sua burbera devozione.
Anna
Regia: Luc Besson
Piattaforma: Amazon Prime
Voto 2,5/5
La recensione breve è facile. Un regista francese, unico europeo a sfondare davvero nella Hollywood che muove centinaia di milioni di dollari mantenendo la propria grammatica cinematografica, vede la sua EuropaCorp, società di produzione e di servizi cinematografici che dà lavoro a centinaia di persone delle banlieues e che ha all’attivo molti successi commerciali, in crisi. E decide di salvarla puntando su se stesso. E tira fuori un fake remake di “Nikita”. Eh già perché Anna è la versione riveduta e (neanche troppo) politicamente corretta (nel senso di MeToo e affini) di quel successo straordinario, di quell’opera dirimente e dirompente che seppe cambiare la direzione di un intero continente e anche alcuni archetipi del genere. Benson si dimostra capace di far risorgere i suoi stereotipi per restituirli agli appassionati con un supercast, di ritrovare l’ennesima donna-bambina da amare, desiderare, plasmare, rendere protagonista, vittima e carnefice insieme e ha il pregio e il difetto di non stupirci. Questa spia che viene dal freddo, alla fine della Guerra Fredda per la precisione, che fa il doppio gioco e alla fine vuole vincere da sola per emanciparsi e smettere di essere solo un corpo e uno strumento, ha scritto il suo destino nei primi 12 minuti di film e in tutta la carriera precedente di Luc. Ma alla fine, siamo sinceri, da lui ci aspettiamo questo. E ce lo dà al massimo delle sue forze attuali.
Malcom & Marie
Regia: Sam Levinson
Piattaforma: NETFLIX
Voto: 1/5
È il caso del momento. Dramma da camera di coppia, di quelli che funzionano perché sezionano il capello in quattro e poi proseguono sui suoi frammenti. Come fanno con gli attributi degli spettatori. “Malcom & Marie” è quel film furbo che vuole farti sentire sensibile e intelligente e ti offre tutto su un piatto d’argento. Tutto, perché nulla è taciuto, nulla è lasciato all’immaginazione. Zendaya, Washington Jr e il regista Levinson non sembrano fidarsi di chi è dall’altra parte dello schermo e spiegano tutto, mostrano tutto. Persino la colonna sonora è ipertrofica e didascalica. Cento minuti in cui un regista forse non più fallito - torna dalla prima di un suo film che lo sta consacrando come “nuovo Spike Lee” - e un’attrice di secondo piano si ritrovano a litigare perché lui ha ringraziato tutti, ma non lei la sua musa e fidanzata. Bella idea quella di raccontare la più classica delle bucce di banana tra pubblico e privato, e con le facce giuste: Zendaya ora la amano tutti (difficile fare altrimenti), John David Washington è uno degli attori del momento, dopo Tenet. Nonostante sia così scarso che se potesse rovinerebbe anche “Quarto Potere”. La sceneggiatura ha dialoghi improbabili in diversi momenti, il regista, quello che recita, “bara” e quello dietro la macchina da presa usa movimenti di macchina scontati per ottenere reazioni scontate. E quel bianco e nero radical chic e senza motivazioni altre che sembrare più “cool” alla gente che piace, porta l’irritazione a livelli irraggiungibili.
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