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Gli Influecer di cui abbiamo bisogno!

Pensate che siano tutti superficiali e inutili? ecco perché vi sbagliate

Mer 21 Lug 2021 | di Angela Iantosca | Media
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Se pensate che gli influencer siano tutti come chi ha (quasi) deciso di partorire in diretta streaming (in realtà pare debba decidere ancora su quale piattaforma farlo), vi sbagliate! Perché accanto a quegli influencer che guadagnano postando la propria vita privata o trasformando ogni momento in uno spot pubblicitario o in un modo per far soldi (nessuna critica, sono scelte), c’è chi usa i social, la rete, i canali Youtube per far riflettere, per parlare di diversità, integrazione, spazi grici, odio razziale da combattere a colpi di amore! In questo speciale spazio a loro, a chi usa la rete per fare la differenza. 

 


Vi racconto la sostenibilità in pochi minuti


Portare le persone ad amare il pianeta, con l'esempio e con il sorriso: questo fa Teresa Agovino 

di Francesca Favotto

“Influencer, ma che influenzino davvero in modo positivo le persone”, questa era la consegna del direttore per questo mese. Io non ho avuto un attimo di esitazione. Subito mi son venute in mente le informazioni che diffonde dai suoi social network e il sorriso con cui lo fa: serafico, luminoso, di una persona che crede in quello che fa. 
Lei è Teresa Agovino, classe 1990, di formazione ingegnere ambientale, di professione consulente di turismo sostenibile. Di vocazione, artigiana della sostenibilità. 
Scorrendo il suo profilo Instagram, che conta quasi 11.500 follower, si può intuire in cosa consista il suo mestiere nella pratica. Ma la raggiungo al telefono in un'assolata mattina di giugno per farmelo spiegare meglio. 

Quindi, di cosa ti occupi, spiegato in parole povere?
«Realizzo progetti di sostenibilità in giro per il mondo, mossa da un solo obiettivo: generare un impatto positivo sull’ambiente e le popolazioni. Per capirci, risolvo problemi riguardo l'approvvigionamento dell'acqua, la gestione dei rifiuti, il turismo sostenibile... Mi reco nelle comunità locali in Thailandia, in Laos, in Perù, in Ecuador... e insieme alle popolazioni autoctone studiamo delle soluzioni che possano essere permanenti e risolutive, costruendo per esempio dei pozzi a basso impatto ambientale». 

Descrivi il tuo mestiere come fosse una missione, quasi...
«E lo è. Spesso la parola che ricorre è vocazione: per me non si tratta solo di arrivare in loco e trovare una soluzione pratica al problema, ma trasmettere alle popolazioni locali gli strumenti per essere davvero indipendenti. Per questo, mi definisco un'artigiana della sostenibilità».
 
Come ogni vocazione, esiste un momento in cui arriva la “chiamata”. Tu ricordi il tuo?
«Certo, come fosse ieri. Ricordo perfettamente di aver capito che avrei dedicato tutta la mia vita alla salvaguardia del Pianeta e delle popolazioni un pomeriggio d’aprile di qualche anno fa. Ero in un villaggio remoto della Tanzania e stavo lavorando come ingegnere ambientale alla potabilizzazione dell’acqua con tecnologie a basso impatto ambientale. Ricordo quegli occhi e il calore delle sue mani. Era l’anziano del villaggio che mi implorava di far giungere acqua potabile nel loro distretto. Ecco, fu quello il momento. L’esatto istante in cui compresi il mio desiderio di essere utile agli altri e al mondo. E, così, questa mia missione mi ha portata in Perù, Laos, Thailandia, Ecuador, Giamaica e tanti altri angoli del Pianeta a collaborare con ONG, enti no profit e associazioni locali su progetti di cooperazione internazionale».

Tu “insegni” agli altri a essere autonomi da un punto di vista ambientale. Ma le esperienze di lavoro e di vita che fai intorno al mondo cosa hanno insegnato a te?
«Vivere così a lungo in Paesi a Sud del mondo mi ha permesso di toccare con mano gli impatti negativi generati dal turismo sull’ambiente e le popolazioni. Così, spinta dal desiderio di trasformare i viaggi in uno strumento per salvare il Pianeta, ho intrapreso un percorso di formazione internazionale con il GSTC, l’organizzazione istituita dall’UNWTO e dall’UNEP. Da quel momento ho iniziato a supportare le realtà di turismo nel loro percorso di sostenibilità, affiancandoli con attività di formazione e certificandone l’impegno ambientale, sociale ed economico secondo gli standard dei principali organismi internazionali di certificazione riconosciuti dalle Nazioni Unite».

Un altro tassello importante nella tua professione... 
«E un altro modo per far capire a tutti che anche viaggiando possiamo fare la differenza. Fare turismo sostenibile significa scegliere strutture ricettive locali, cenare in locande gestite da autoctoni o che utilizzano prodotti a km zero, spostarsi con mezzi di trasporto ecosostenibili... Io dal canto mio mi impegno nel certificare le realtà ricettive che con le loro scelte dimostrano di tenere davvero all'ambiente». 

Ecco che viene fuori la tua anima social.
«I social sono lo strumento perfetto per raggiungere tantissime persone e fare divulgazione. Io su Instagram, attraverso i miei post o le mie rubriche, come il Green Corner, cerco di raccontare la sostenibilità in pochi minuti, attraverso esempi concreti. Le persone devono capire che tutti possiamo essere parte attiva del cambiamento, anche con pochi semplici gesti. La sostenibilità è accessibile a tutti: prima lo capiamo, meglio è». 

C'è speranza per il pianeta Terra? Vedi un cambiamento nel modo di fare e di pensare delle persone?
«L'attenzione verso i temi green è sempre più alta: sempre più persone stanno scegliendo un'alimentazione vegetariana o vegana, o vacanze più slow, per fare degli esempi... La strada verso una vera e propria consapevolezza e responsabilità green però è ancora lunga. Ma sono ottimista». 

Si sente che lo sei: il tuo sorriso e il tuo entusiasmo arrivano anche attraverso il telefono.
«Ci vuole ottimismo, ma condito da razionalità: bisogna dimostrare alle persone che il cambiamento è possibile e parte proprio dalla scelta di bere acqua dal rubinetto invece di quella confezionata, per esempio. Io dico sempre che nulla è a impatto zero:  non possiamo evitare di lasciare impronte, ma possiamo scegliere come farlo».            



Teresa Agovino: come voler bene alla terra
Ingegnere ambientale e consulente per il turismo sostenibile, Teresa Agovino, classe 1990, da Salerno è diventata “cittadina del mondo”: dal Perù alla Thailandia, passando per la Tanzania, decine sono stati i progetti ambientali con i quali ha migliorato la vita delle popolazioni locali, educandole all'indipendenza e alla sostenibilità. Parola d'ordine che ispira anche la sua attività su Instagram: dal suo profilo racconta le sue esperienze e con esempi pratici insegna a tutti noi come voler bene al nostro Pianeta Terra, l'unico che abbiamo. La trovate come Teresa Agovino ovunque, sia su Internet che sui social. 

 


Una pepitosa in carrozza


Valentina Tomirotti: “Sono più interessante della mia malattia”

di Francesca Favotto 

Valentina Tomirotti è tante, tantissime cose. «Sono una donna, consapevole di esserlo, innanzitutto. Ho un peso specifico, voglio lasciare un segno in questo mondo. Poi, sono giornalista, la comunicazione è il mio pane quotidiano: mi occupo di social e ufficio stampa. E poi voglio camminare: verso gli altri, sempre a testa alta». 
Camminare, usa proprio questo verbo, anche se le gambe non le ha potute mai usare, sin dalla nascita. «Cammino su quattro ruote, cammino con la testa», precisa. 
Valentina ha la displasia diastrofica, una malattia rara, che comporta malformazioni articolari, secondarie a contratture articolari multiple. Tradotto: «Ho le misure di una bambina, ma con un seno da donna», mi spiega ridendo al telefono. 
«La mia patologia non fu diagnosticata con le ecografie, quindi quando venni al mondo arrivai con la sorpresa. Ma mi piace dire che sono nata comoda e non ho mai avuto intenzione di fare più fatica del previsto, in effetti». 

Valentina colpisce per la schiettezza con cui parla della sua condizione: dal vivo, ma anche sui social, dove è molto attiva e dove invita ad aprire gli occhi sulla disabilità. 
«Su Instagram, dove ho quasi 14mila follower, sono Pepitosa e mi definisco una diversity teller, con sempre qualcosa da raccontare. Capisco che la mia condizione sia considerata diversa, ma io non ho mai avuto confini con gli altri, né più né meno che quelli che possono riscontrare le altre persone. Il mio handicap non è mai stato un handicap, perché io così ci sono nata e questa per me è la normalità: non c'è un prima e un dopo. C'è un sempre, il mio sempre, che cerco di raccontare con onestà, senza quella patina di compassione con cui vogliono condire spesso queste situazioni». 

Ed è semplice vivere così in questo mondo?
«No, è frutto di un cammino a tratti impervio. A quasi 39 anni non ho ancora fatto pace con gli sguardi delle altre persone: quando mi guardano con insistenza o in un certo modo, mi dà ancora fastidio, ma questo mi ha resa più forte. Non ci rendiamo conto che l'atteggiamento degli altri va a plasmare quello che siamo. Mi vorrebbero in un angolo a piangere dalla mattina alla sera, ma questo giocoforza costruirebbe una dimensione che non mi appartiene davvero». 

E quale sarebbe la tua dimensione?
«Io non sono la Vale in carrozzina: io sono la simpatica, la stronza, la comica, la cinica. Poi arriva la carrozzina. Sono malata, ma non sono la mia malattia. Vorrei che il discrimine fosse sul carattere, sulla persona, non sulla condizione. C'è questa mentalità che vuole che una persona malata sia buona e cara e che vada rispettata a prescindere: no, la si rispetta se sa meritarsi il rispetto con il comportamento che ha, non per quello che è indipendentemente dalle scelte che fa». 

Pensieri e ragionamenti che porti in luce anche sui social...
«Amo definirmi la Mac Gyver della disabilità, perché fornisco strumenti e alternative per raccontare una quotidianità un po' differente dal “normale”. Dal come mettersi il rossetto al come prendere la patente, passando a come affrontare diverse questioni burocratiche... Cose che fanno tutti, ma che io giocoforza devo fare in modo diverso. Non c'è però né tristezza né negatività né pietà: per me è l'unico modo di poterle fare, quindi lo mostro senza nascondersi. È un modo anche questo per abbattere le barriere e il pregiudizio, no?». 

Una delle tue ultime battaglie è a favore del turismo accessibile e dell'inclusione in questo settore... 
«Battaglie è corretto, perché io più che un'influencer mi reputo un'attivista. Sono Presidentessa dell'associazione Pepitosa in carrozza, che si occupa proprio di turismo accessibile. E il nostro obiettivo è proprio l'inclusione, senza barriere. Il nostro ultimo progetto riguarda una serie di guide sul turismo accessibile delle diverse città d'Italia. La prima che è appena uscita è su Mantova e provincia: perché è la mia città è soprattutto perché, essendo stata realizzata in piena pandemia, non potevamo girovagare troppo per l'Italia. Ci siamo recati proprio in loco per testare con mano e carrozzina gli ostacoli che una città “offre” a noi diversamente abili: marciapiedi sconnessi, gradini troppo alti, maniglie fuori portata... Tutto, abbiamo fatto l'ecografia alla città. È una guida utile per diversi motivi: in primis, per promuovere il territorio da un punto di vista turistico, rendendolo davvero inclusivo. Anche perché gli ostacoli riportati non lo sono solo per noi disabili in carrozzina, ma anche per una mamma col passeggino, per un anziano che non riesce a deambulare... È una guida che offre un punto di vista diverso e soprattutto uno sprone a migliorare. Per questo, è un format replicabile su qualunque città e un servizio utile per le amministrazioni pubbliche». 

Quali sono quindi le prossime guide in uscita, i prossimi obiettivi?
«Vorrei realizzare una guida di Venezia, perché è una città unica al mondo, metafora della diversità in termini sia positivi che negativi e che non è stata mai comunicata in modo adeguato: come poterla girare da diversamente abile con tutti quei ponti, quegli scalini, quell'acqua? Poi mi piacerebbe fare una chiacchierata col sindaco di Milano, per capire meglio la città, che è il futuro, ma ancora non se n'è resa conto. Io per esempio non posso prendere la metro. Milano è la città di quelli che corrono, ma dev'esserlo anche di quelli che strisciano... di tutti. Infine, vorrei realizzare la guida di Bologna. Il motivo? È una delle mie città preferite, semplicemente».  



LA MAC GYVER DELLA DISABILITÀ
Classe 1982, mantovana, Valentina è una donna passionale, appassionata, ruvida, come i post che snocciola sui suoi social con l'hashtag #perdire. Diversamente abile dalla nascita, «ma non è la cosa più importante», racconta il suo mondo con un punto di vista disincantato e reale, schietto e senza filtri. È Presidentessa dell'associazione Pepitosa in carrozza, con cui porta avanti progetti di mobilità e accessibilità inclusiva, ma non solo. La trovate come Valentina Tomirotti ovunque, sia su Internet che sui social. 

 


Benvenuti nel mio Spazio Grigio


La youtuber da 100mila follower che dispensa consigli sul minimalismo, la crescita personale e la routine mattutina 

di Vita Scolozzi

Sul suo blog si presenta semplicemente così: “Ciao, sono Irina”. E già da subito si capisce che è una persona che bada all’essenza delle cose. Su questo ha basato la sua vita e su questo ha costruito un canale YouTube, attraverso il quale dispensa consigli sul minimalismo, sulla crescita personale e sulla routine mattutina, e che conta ormai quasi 100.000 iscritti. Lo ha chiamato Spazio Grigio. Perché ognuno di noi è alla ricerca del suo spazio e perché nella vita vera il bianco e il nero non esistono. Di recente è stata una delle protagoniste del TEDx di Torino, dove ha potuto interfacciarsi con una platea importante, raccontando di come le sue scelte di vita apparentemente semplici l’abbiano liberata dalle sovrastrutture sociali e l’abbiano resa una donna migliore. 

Da dove nasce il nome Spazio Grigio?
«Quando ho aperto il blog, che è stato l'anticamera di tutto il progetto, l'ho chiamato Spazio Grigio. Volevo creare uno spazio aperto a chiunque, che fosse grigio, perché dal mio punto di vista le risposte nel mondo reale devono avere il carattere della sfumatura. Il bianco e il nero non esistono nella vita di tutti i giorni. All'interno del blog ognuno deve trovare la propria risposta, qualunque sia la domanda».

Quando è nato il blog?
«È nato a ottobre del 2019.

E il canale YouTube ne è stata una conseguenza?
«Il canale YouTube è nato a febbraio 2020. Il blog è stato la base, ho iniziato a scrivere i miei pensieri e il mio percorso. E mi piaceva. Avevo un buon riscontro, così mi sono lanciata verso altre piattaforme, approdando su YouTube. Oggi il canale conta 100.000 iscritti».

Di cosa parla nei suoi video e nel suo Spazio Grigio?
«Principalmente di minimalismo, ma tutto ruota intorno alla crescita personale e intorno a come e perché migliorare la propria vita. Raccontando il mio percorso, le buone abitudini, la routine mattutina, le persone possono trarre ispirazione e insegnamento adattando ciò di cui parlo alle loro vite».

Cosa si intende per routine mattutina?
«Una serie di azioni quotidiane ripetute ogni mattina, che aiutano a creare una routine per iniziare al meglio la giornata. Ho scritto anche un e-book dedicato a questo argomento».

Questa attività è anche il suo lavoro?
«Oggi sì, me ne occupo a tempo pieno».

Quindi, se una persona la incontra per strada e le chiede: che lavoro fa?
«Dipende sempre dal mio interlocutore. Se è una persona che non conosce i social, sono una creatrice di contenuti digitali. Altrimenti sono una youtuber, una blogger, una scrittrice. E ho creato anche una linea di prodotti per la persona. Si tratta di un olio viso, un olio corpo e un burro per il viso. Il mio lavoro è molto sfaccettato».

Un canale YouTube da quasi 100.000 iscritti. Perché proprio questo canale?
«Sono state le persone a scegliere di seguirmi su quel canale. Non è stato un ragionamento fatto a priori. Ho cominciato da zero, la gente mi riconosceva come rappresentante del minimalismo. Hanno visto qualcosa ed è iniziato un movimento continuo che mi ha fatto crescere nei numeri. Non so spiegarmi perché YouTube abbia funzionato meglio di altri canali. Forse il fatto che il supporto video permetta di accostare una forma alle parole fa arrivare meglio il messaggio».

Come si sta in rete, dove tutto è o bianco o nero?
«Bisogna farsi spazio e cercare di essere se stessi. Un aspetto negativo è che le persone si aspettano certe cose da te, che tu sia in un certo modo o che rispetti determinate regole. Noi dobbiamo rimanere fedeli a noi stessi. Solo così le persone potranno vedere la tua figura reale, quello che sei davvero e immedesimarsi in te».

Come si sta in rete durante una pandemia, quando la rete sembra essere l'unico posto sicuro? 
«La rete oggi è un posto migliore. Perché le persone cercano risposte, hanno capito che il loro stile di vita non andava bene e hanno valutato alternative, hanno capito che la materialità delle cose non è tutto. In rete ho visto un'apertura al cambiamento».

Parla spesso di sostenibilità. Cos'è per lei?
«Fare del proprio meglio in base alle proprie conoscenze, con l'obiettivo di avere un minore impatto sull'ambiente. Si può usare meno plastica, mangiare più vegetali, acquistare meno e più di qualità, utilizzare ciò che si ha, senza cercare nuove risorse, oppure acquistare oggetti di seconda mano».

Va di moda essere sostenibili. Ma riusciamo realmente a riempire di senso questo concetto?
«C'è anche una parola che descrive bene il concetto, che è greenwashing, un neologismo sull'ambientalismo di facciata. Credo che questo si combatta con molta informazione. E sta a noi informarci. Io ci credo profondamente».

Quando parla di crescita personale, da dove si inizia?
«Un primo passo importante è il minimalismo, quello che gli inglesi chiamano decluttering, ossia togliere il superfluo ed eliminare la confusione. Questo passo aiuta a capire cosa è più importante, cosa ti piace davvero, cosa ti fa sentire bene e soddisfatto. Quando togli tutto, ciò che resta è la risposta che stai cercando. Avrai più tempo, più spazio, più energia, da dedicare a quello che importa. Senza sprecare forze e risorse. Parliamo di uno strumento per raggiungere la libertà da quei pesi che ci schiacciano, non ci lasciano vivere e ci tengono nel passato».

Come si vive una vita ben vissuta?
«Bisogna essere in linea con i propri valori. Per me la libertà è alla base e tutto quello che faccio punta a farmi fare un passo in più verso uno status sempre più libero».

Prima di iniziare a comunicarlo, quando si è resa conto che ci era riuscita a vivere bene? 
«Non ho aspettato di sentirmi completa, di avere in qualche modo terminato il percorso, anche perché in realtà non si finisce mai di progredire. Quando ho capito che ciò di cui mi stavo liberando mi faceva sentire bene, ho capito che dovevo comunicare a tutti la mia formula, far conoscere i miei consigli. Non credo nemmeno ora di aver raggiunto alcun traguardo».

Minimalismo significa semplicemente mettere un segno meno, sottrarre?
«Significa avere l'indispensabile, circondarmi solo di oggetti che o svolgono una funzione oppure portano un valore. All'inizio è difficile liberarsi, poi si capisce il meccanismo. Si parte con oggetti, come l'abbigliamento, per poi passare ad attività, impegni, di cui è ugualmente importante liberarsi. A volte il superfluo toglie concentrazione dai focus importanti della vita».

Cosa è superfluo e a cosa non rinuncerebbe mai?
«Non rinuncerei mai al telefono, perché oltre ad essere il mio strumento di lavoro, è anche una buona fonte di approfondimento e di intrattenimento. Rinuncerei a qualsiasi vestito, non uno in particolare, ma qualunque capo di abbigliamento non è nella mia scala di priorità. Lascerei anche la carta, sono per il digitale, non inquina ed è facile da gestire».

Le dicevano che era un po' rigida. Poi ha condiviso la proposta di matrimonio che il suo compagno le ha fatto. 
«Credo che fosse un bel momento da condividere. Forse le persone hanno iniziato a vedere il lato più umano di me. Hanno visto il sentimento, che nei video di solito non c'è. Penso comunque che alcuni aspetti della vita impongano rispetto e vadano tenuti privati».

Di cosa ha parlato sul palco del TEDx Torino?
«Del mio percorso e della differenza tra la me di tre anni fa, insoddisfatta ed apparentemente realizzata nella vita, e quella di adesso, libera da tutte le sovrastrutture sociali. Per me è stato un onore, ho anche tenuto un corso all'università incentrato su come costruire un TEDx talk, quindi arrivarci è stato un traguardo che mi ha regalato una nuova consapevolezza. Una pacca sulla spalla virtuale, che fa tanto bene all’animo».

 


Tik Tokers contro l’odio con ironia

        

Due content creator creano contenuti che possono intrattenere e portare un messaggio positivo

di Nadia Afragola

Raissa e Momo sono due giovani, sono una coppia e amano creare contenuti online. Sono finiti alla ribalta del grande pubblico per essere diventati due star di TikTok. La loro particolarità? Lei è italiana, lui marocchino. Se per la maggior parte delle persone questa non è un’unicità, per una grande fetta della loro audience su TikTok è proprio questa la condizione sufficiente a scatenare l’odio. La loro forza sta nel modo che hanno scelto per rispondere agli haters: l’ironia. Hanno di recente raccontato la loro esperienza al Tedx Torino, convincendo tutti che la risposta all’odio sta nell’ascolto e non in un sordo e cieco atto di violenza. 

Per chi ancora non vi conoscesse, chi siete?
Momo: «Siamo due content creator, cerchiamo di creare contenuti on line che possano intrattenere e allo stesso tempo portare un messaggio positivo, sia in rete che nel mondo off line».

Quando avete capito di essere percepiti come una cosa sola?
Raissa: «Abbiamo iniziato un po' per gioco, non appena è esplosa la pandemia, quindi si parla della primavera del 2020. Dopo qualche mese, abbiamo iniziato a ricevere feedback positivi da parte della community che ci seguiva e si immedesimava in quello che noi raccontavamo. È iniziato uno scambio di idee, ricevevamo messaggi personali sulle inquietudini e le paure degli altri. Così abbiamo raccolto tutti questi spunti e li abbiamo usati come base per i nostri video».

C'è stato un momento in cui avete capito che l'ironia poteva essere davvero l'arma più efficace per dare il buon esempio?
Momo: «Sì, direi che c'è stato un momento preciso, coinciso con il momento in cui abbiamo aggiunto all'interno di un video un box di domande in cui sono arrivati davvero molti e variegati insulti. Tra questi, uno ci ha dato il guizzo più di altri ed era: "Vedrai quando ti alzerà le mani!". Commento giocato chiaramente sul pregiudizio che tutte le persone di colore sono per natura manesche. Ecco che a questa provocazione abbiamo risposto con l'ironia, girando un video in cui io prendevo le mani di Raissa e gliele alzavo sopra la testa agitandole, interpretando letteralmente l'espressione usata da questo hater. Lo stesso abbiamo fatto per tanti altri insulti. Il riscontro ricevuto ci ha fatto capire che la chiave per affrontare queste tematiche era proprio l'ironia».

Bullismo e razzismo sono alcuni dei mali che ci attanagliano. L'ironia per combatterli, dove si trova?
Momo: «Penso che l'ironia sia dentro ognuno di noi, basta ascoltare, prestare attenzione al peso e alle sfumature delle parole. Bisogna forse esercitarla di più, cambiare attitudine e certamente disabituarci all'odio, che non è mai la soluzione ad un insulto».

TikTok è il vostro palcoscenico preferito. Perché avete scelto proprio quel social?
Raissa: «Abbiamo iniziato ad usare TikTok perché era il social più giovane sul mercato. Su quella piattaforma abbiamo trovato una community in grado di recepire in maniera profonda il nostro messaggio. Non ci siamo però fermati lì, abbiamo creato contenuti anche su altri canali».

Da dove prendete ispirazione per i vostri video?
Momo: «Prendiamo la quotidianità e cerchiamo di rappresentarla in pochi secondi o in più minuti, in base al canale scelto. Ogni social mette a disposizione metodi e tempi differenti di racconto».

Uno dei problemi imputato ai social e a TikTok in particolare, è l'uso poco responsabile che se ne fa. Ci sono delle regole di comportamento per avere un mondo on line migliore?
Raissa: «Questo è un grande problema che non riguarda solo i social, ma ad esempio anche i videogiochi. Iniziare ad utilizzare un linguaggio positivo, anche e soprattutto da parte degli adulti e veicolare messaggi più inclusivi, può essere la strada verso la responsabilizzazione».

L’ultima novità in fatto di social è il neonato Clubhouse. È un canale che utilizzerete?
Momo: «Lo stiamo studiando. È un social che merita attenzione, anche perché è basato esclusivamente sulla voce, aspetto che sta suscitando sempre più attenzione. La grande differenza con gli altri social è che in Clubhouse devi avere contenuti veri, perché non hai nulla che ti supporti al di fuori del tuo racconto, niente immagini, niente video. Ci sei tu, il tuo pubblico e i tuoi concetti». 
Raissa: «Con il vantaggio poi che non monopolizza la tua attenzione, ma puoi svolgere nel frattempo anche altre attività».

Durante la pandemia, la rete è diventata l'unico luogo sicuro. Non potendo andare al cinema, al ristorante, a scuola, il mondo on line è forse diventato più vivibile?
Raissa: «Sicuramente la rete vissuta come luogo di ritrovo ha acquisito più valore e ci ha permesso di rimanere in contatto con persone altrimenti lontane. Abbiamo capito quanto il web sia uno strumento indispensabile e di supporto, a patto che lo si usi nel modo giusto». 

Momo, lei è nato in Italia?
«No, sono nato in Marocco e mi sono trasferito in Italia a 6 anni».

Come si vive in Italia?
«Benissimo. Non è il mio Paese d'origine, ma lo sento fortemente come paese d'adozione. Nello specifico Torino è la città che mi ha dato di più. Dell'Italia parlerò sempre nel migliore dei modi, in qualsiasi altro posto dovessi andare».

Che messaggio avete lanciato dal palco del Tedx Torino?
Raissa: «Un messaggio di inclusività e tolleranza. Un'esortazione ad accettare le proprie diversità e di accettazione, da parte degli altri, delle diversità altrui. Questa è la base per una convivenza pacifica».
Come è stato invece calcare il palco di “Tu si que vales”?
Momo: «Eravamo emozionati nel parlare ad un pubblico così ampio come quello di Canale 5 in prima serata. Sono passati già alcuni mesi, ma l'entusiasmo di quell’esperienza ancora ci accompagna».

Progetti per il futuro?
Raissa: «Continueremo su questa strada, intensificheremo la nostra presenza sui social e cercheremo di diversificare la nostra comunicazione in base al social di riferimento». 
Momo: «Ci sono molti progetti che bollono in pentola e che presto vedranno la luce, con l’augurio che in futuro non sarà più necessario toccare certe tematiche e che supereremo i pregiudizi razziali».          

 
COSA È TIK TOK?
È un social network cinese lanciato nel settembre 2016, capace di incorporare musica e video in un social network. Chi lo usa è noto come tik tokers. Attraverso l'app, gli utenti possono creare brevi clip musicali di durata variabile (fino a 60’’) ed eventualmente modificare la velocità di riproduzione, aggiungendo filtri ed effetti ai loro video. Il target? Gli adolescenti. In Europa è stata chiesta una task force contro i rischi del social cinese, perché è importante che i cittadini europei sappiano come vengano usati i dati caricati e se effettivamente vengano controllati dal governo centrale cinese. Il 22 gennaio 2021 il Garante per la protezione dei dati personali ha disposto il blocco dell'uso dei dati degli utenti per i quali non sia stata accertata l'età anagrafica. La disposizione è stata la conseguenza della morte di una bambina siciliana di 10 anni, avvenuta dopo l'esecuzione di una challenge condivisa tra gli utenti della piattaforma che prevedeva il tentativo di strozzamento dell'utente tramite una cintura attorno al collo.

 


Genitori vs Influencer


Il film “genitori vs influencer” consacra e dissacra la filosofia dei guru social con uno sguardo fresco 
e ironico, firmato da Michela Andreozzi

di Giulia Imperiale

Boomer e millennial sono due generazioni in perenne rotta di collisione: parlano linguaggi diversi, a velocità differenti. Spesso si giudicano e si condannano, senza ascoltarsi realmente. Di questo parla il film “Genitori vs Influencer”, disponibile su NOW: racconta di un professore, Paolo Martinelli (al secolo Fabio Volo), che proprio non capisce la figlia adolescente Simone (Ginevra Francesconi) e il suo desiderio di carriera come influencer. L’uomo, totalmente contrario alla filosofia dei social, diventa per ironia della sorte famoso sul web proprio per mezzo della sua crociata. 

Com’è nata quest’idea?
Michela Andreozzi: «L’ispirazione nasce dall’eterna lotta tra padri e figli, una dinamica che mi ha sempre incuriosito. Il periodo dell’adolescenza che segna il passaggio all’età adulta rompe il cordone ombelicale con i genitori. Stavolta, però, a differenza delle fughe in motorino in stile “Il tempo delle mele”, troviamo come terreno d’incontro/scontro i social». 

In che senso?
Michela Andreozzi: «I social hanno rimpiazzato muretto, discoteca e piazza, soprattutto in quest’anno di pandemia. E in questa storia il papà cerca di tutelare la figlia per impedire di diventare un’influencer senza sapere che ne diventa uno lui stesso».

Come si vede nei panni del professore?
Fabio Volo: «A dire il vero è sempre stato un mio piccolo sogno, non solo d’interpretarlo, ma anche di farlo nella vita come mestiere. Mi ha colpito questo padre vedovo che cresce una figlia come vuole lui, le fa leggere Spinoza e i filosofi, convinto di dar vita ad una cosa mentre si ritrova di fronte tutt’altro. Vediamo a confronto due mondi pieni di pregiudizi: il boomer pensa che il web sia pericoloso, mentre i ragazzi della generazione Z considerano i genitori come preistorici».

Cosa ne pensa la figlia?
Ginevra Francesconi: «Capisco la voglia d’indipendenza di Simone, perché la provo anch’io in quest’età bellissima in cui mi sento come Peter Pan, ma desidero anche diventare grande. Io conosco poco il mondo dei social, ma mi affascina l’universo degli influencer e non voglio giudicarlo, perché dietro questi click c’è anche un numero incredibile di belle persone».

Lei cosa ne pensa degli influencer?
Fabio Volo: «Ho capito che è un lavoro meraviglioso perché hanno un impatto sulle persone. Io, per esempio, in radio suggerisco un libro che ho letto e mi è piaciuto, quindi mi sembra naturale che l’umanità si evolva influenzandosi a vicenda. Ci sono quelli che danno consigli su cosa bere e come nutrirsi in maniera sana o chi condivide le conoscenze dello yoga, insomma il panorama resta vastissimo. Quindi, dipende tutto da come si usa lo strumento a propria disposizione».
Ginevra Francesconi: «Non sono minimamente un gioco: i social oggi diventano uno strumento potentissimo di comunicazione».
Nino Frassica: «Solo che per usarli ci vorrebbe una patente! (ride - ndr)».
           

LA REGISTA-CAMALEONTE
Michela Andreozzi ha una carriera versatile che passa davanti a dietro la macchina da presa. Dopo l’esordio nel team di Gianni Boncompagni (in “Non è la Rai” ha registrato diverse canzoni doppiando le protagoniste), continua la sua carriera in vari programmi di successo, da “Zelig” a “Quello che il calcio”. Sceneggiatrice, conduttrice e comica, ha una lunga carriera a teatro e su grande schermo. Ha debuttato alla regia al cinema con “Nove lune e mezza” e ha continuato a raccontare le donne in “Brave ragazze”. Per Netflix codirige la serie “Guida astrologica per cuori infranti.” Nel 2018 ha pubblicato il libro “Non me lo chiedete più” per HarperCollins, sul tema del childfree. L’ultimo lavoro “Genitori vs Influencer” è disponibile su Sky e NOW. 

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