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Tunisia liberaNon la fame, ma le ingiustizie hanno portato il popolo a ribellarsi al regime di Ben AlìGio 27 Gen 2011 | di Stefano Cortelletti | Attualità
Tunis horra horra, Tunisia libera. La Tunisia esiste. Non come meta per le vacanze, ma come Nazione che reclama voglia di democrazia. Si trova a 150 km dall'Italia, separata da un lembo di mare, eppure finora non ci eravamo accorti che era un Paese in sofferenza, con un malessere represso da ipocrisia indotta. Oggi ci siamo accorti che la Tunisia non è una destinazione balneare, ma una Nazione. La fuga del presidente Zine El Abidine Ben Alì, dopo quasi 24 anni ininterrotti di potere, ha fatto conoscere al mondo la vera natura del “regime”: organi di informazione controllati dal governo centrale, accesso ad internet limitato solo ai siti “amici”, un socialismo che ha sfornato migliaia di laureati senza la certezza di un posto di lavoro in patria, una ricchezza distribuita tra pochi. Chi ha visitato la Tunisia solo per svago, molto probabilmente non si è mai accorto di nulla. Per le strade campeggiavano le gigantografie del presidente Ben Alì, a chiunque si chiedesse un giudizio sull'operato del governo erano solo elogi. Si trattava di apparenza. Non è stata la crisi economica mondiale a spiazzare il Paese, ma il senso di esasperazione della popolazione all'ennesimo aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, alla mancanza di lavoro e di espressione, alla corruzione dei pubblici funzionari. Alla mancanza di libertà. L'hanno chiamata la "rivolta dei laureati", eppure tutto ha avuto inizio non in una Università, ma in una pubblica piazza dove un giovane tunisino si è dato fuoco per protesta. Il suicidio pubblico di un ragazzo di cui non è mai stato diffuso il nome, ma che ha avuto il merito – certamente inconsapevole – di aver dato inizio alla fine. Un onore che forse mai nessuno gli riconoscerà, se non la Storia. Si è ribellato al sequestro del suo carrello carico di legumi da vendere. Lui, laureato, rimasto senza il mezzo di sostentamento perché si è rifiutato di pagare il poliziotto di turno. Tutto intorno, ali di gente che ha osservato esterrefatta. A fargli ombra, le icone di Ben Alì con le frasi ad effetto: il presidente è bravo, va tutto bene. Un ragazzo si dà fuoco e l'incendio esplode in tutta la Tunisia: Bizerte, Sfax, Sousse, Tunisi, Kairouan, Meknassi, Ben Arous. Manifestanti repressi dalla polizia come terroristi, non come popolo esasperato, ed il regime scopre le carte: spari sulla folla, decine di morti, migliaia di arresti. Un precipitare di eventi che ha portato Ben Alì alla fuga a gambe levate, con tanto di famiglia e ricchezza al seguito. Aveva paura di fare la fine di dittatori come Ceausescu, in Romania, stanato dalla sua casa e fucilato dagli insorti. Le spiagge di Hammamet, le escursioni nel deserto, le talassoterapie per ora sono un vago ricordo del passato e tanto tempo dovrà passare prima di poter tornare ad apprezzare le bellezze di quei posti. Oggi la Tunisia è un posto poco sicuro, una Nazione che cerca di ritrovare se stessa. La vera ricchezza della Tunisia non era il turismo o l'agricoltura, ma il cherosene e gli aerei prodotti in grande quantità e venduti in cambio di benzina e di denaro diretto nelle tasche di Ben Alì e della sua famiglia. Il sistema scolastico si era ridotto a un diplomificio senza prospettive nel mondo del lavoro e della produzione. Al regime interessavano tecnici, operai e non ricercatori e scienziati. L'Italia fino ad ora è stato un partner privilegiato della Tunisia, legata da un “Trattato di Buon Vicinato, Amicizia e Collaborazione”, firmato nel 2003, che prevede la realizzazione di periodici incontri e consultazioni al più alto livello politico. Il governo italiano è l'unico che ha finora avallato e sostenuto la presidenza di Ben Alì. Forse, sostiene l'Himam di Napoli Nasser Hidouri, è stata proprio l'Italia a finanziare l'ascesa del presidente nel 1987. Anche noi, dunque, siamo responsabili di quanto sta accadendo in quel Paese. “Stop alla complicità dell'Italia con il regime di Ben Alì”, recitava uno striscione di protesta davanti all'Amba-sciata di Tunisia in Italia, affisso poche ore dopo l'esplosione della rivolta. Gli Italiani hanno fatto affari con la Tunisia e probabilmente continueranno a farne. Sono circa 680 le aziende italiane interessate, tra piccole e medie imprese e grandi gruppi operanti nel Paese, con un numero di addetti che supera le 55.000 unità ed un totale di investimenti di circa 216 milioni di euro, particolarmente concentrati nel settore tessile, calzaturiero e degli idrocarburi. Gli interessi dominano su tutti: è in fase di realizzazione un progetto congiunto italo-tunisino denominato Elmed, che prevede la realizzazione di un cavo sottomarino di interconnessione elettrica, della capacità di 1.000 megawatt, costruito e gestito da una società mista integrata da Terna e dalla tunisina Steg, e di una centrale elettrica da 1.200 megawatt nei pressi di El Haouaria. Il valore complessivo degli investimenti programmati è pari a circa 2 miliardi di euro. Il nostro Paese ospita quasi 102.000 tunisini, l'ottava comunità straniera in Italia, cresciuta del 18,8% dal 2002 ad oggi. Per lo più risiedono (dati “Veneto lavoro - osservatorio & ricerca, 2007”) in Emilia Romagna (13.429), Lombardia (12.179) e Sicilia (10.086). Gente che oggi si sente persa, senza una guida di riferimento. Nessuno ha voglia di commentare. Fino a ieri accaniti sostenitori del Presidente, oggi nemici giurati. Un copione già visto in Italia, all'indomani del 25 luglio 1943. A capo dell'Italia c'era Benito Mussolini.
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