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20) Mio padre, fabbro ferraioIo, bambina innamorata della sua fucinaMar 27 Set 2011 | di Articolo ricevuto dalla nostra lettrice Aurelia Pernisco | concorso iPad
Mio padre di lavoro faceva il fabbro. Un mestiere ormai perduto nei ricordi di chi, come me, appartiene ad un’altra generazione. A ripensarci oggi, l’idea di mio padre mi fa sorridere. Mi ritornano in mente odori, sensazioni, lontani nel tempo e nello spazio. Rivedo me stessa bambina, restare soggiogata dall’arte di mio padre, quel gioco col ferro ai miei occhi appariva un’alchimia. Da un pezzo di ferro scuro, informe, nascevano delle meraviglie: ora un vomere per l’aratro, ora una vanga, ora una zappa. Pezzi unici, forgiati sulle richieste di quei poveri contadini. C’erano zappe grandi e forti per gli uomini, leggere e maneggevoli per le donne e i ragazzi. Mio padre era fabbro da generazioni e ne era orgoglioso: lo erano stati suo padre e suo nonno e lo erano tutti i suoi fratelli. Ma lui era un artista, da ciò che sembrava scarto di ferraglia nascevano fregi per porte, teste di animali per portoni, cancelli, meraviglie di chiavi che aprivano chissà quali scrigni segreti. Quando non aveva lavoro urgente da consegnare, da quell’incudine e quel ferro rovente battuto a tempo, ora dal martello ora dal martelletto, venivano forgiati oggetti armoniosi. Tutto nelle sue mani diventava utile e bello, dalla sua testa uscivano idee che diventavano oggetti: ora era un ferro da stiro a carbone, un braciere, ora delle sedie e un tavolo da giardino, portavasi per le piante e i vassoi, persino un piccolo torchio per ottenere l’olio di mandorle. A quei tempi io ero una bambina innamorata di quella fucina: quando la mamma mi agghindava di tutto punto con il vestitino bianco e le trecce legate con fiocchi enormi, puntualmente io correvo nell’officina di mio padre nella speranza di trovare un triciclo nuovo o un monopattino. Al ritorno a casa ero sporca di fuliggine e terra ferrosa, consapevole delle ire di mia madre, ma raggiante per quel tempo trascorso con papà. Mi piaceva soffiare il mantice, ma ero talmente piccola che, quando il mantice risaliva, dovevo appendermi per farlo scendere. E poi, quella fucina diventava per me un salotto di letterati: c’erano i vecchi che venivano a passare il tempo parlando di politica, c’erano le signore che venivano ad ordinare i pezzi da giardino e si fermavano a chiacchierare, e c’erano i ragazzi di bottega che volevano imparare il mestiere. Quando mio padre si affacciava sulla porta per fumarsi una sigaretta, tutti quelli che passavano lo salutavano: “Maestro Vittorio, buongiorno…”. E lui, tutto orgoglioso rispondeva al saluto e si rimetteva al lavoro di buona lena, cantando e fischiettando, diffondeva nell’aria allegria e gioia di vivere e poco importava se era stonato come una campana. Il lavoro era duro, certo, gli attrezzi pesanti, ma ero un uomo libero ed era felice... e lo ero anch’io. |
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